Opinioni & Commenti
Il futuro della Toscana nelle pieghe del Programma di sviluppo
Cinque anni (di cui uno quasi andato), 9 obiettivi (6 fatti propri dai programmi di «Europa 2020» e 3 aggiunti in termini di toscanità specifica), 26 progetti (che toccano tutto il toccabile), 6 miliardi e 400 milioni (di risorse regionali, cui potrebbero aggiungersene altre di fonte europea), 69 pagine (che non sono neppure scritte male ma che sono certo destinate a letture molto esclusive, nel piccolo club che ancora si interessa a programmazione e dintorni), l’ambizione (tipica della antica sinistra) che il governo non debba essere lasciato al caso ma preceduto da forme in qualche modo programmatorie.
Ecco il Prs (Programma regionale di sviluppo) 2016-2020: approvato in Giunta, nell’organo di governo dovrà tornare dopo qualche settimana di «concertazione» (in Toscana, questa non è ancora una parolaccia) con le parti sociali: quelle «parti» che nel livello nazionale non sembrano godere di considerazione oggi che il rapporto fra «premier» e cittadini è (o pare) sempre più diretto. È – scrive Enrico Rossi nella presentazione del Prs – «l’architrave delle politiche regionali … lo strumento orientativo che esprime una visione per il futuro della Toscana e promuove un dialogo costruttivo con gli attori del territorio».
Ma subito lo stesso presidente mette non poche mani in avanti: non possiamo infatti prescindere – scrive – dai colossali e sempre più rapidi cambiamenti in cui siamo immersi. E ne identifica due, di cambiamenti, da cui ogni politico regionale saggio non può non partire: la imprevedibilità dello scenario internazionale e il forte ripensamento nel ruolo delle Regioni. Lasciamo pure perdere la prima questione (che significa robetta come pressioni migratorie, instabilità economica, mutamenti climatici, tensioni geopolitiche. Significa anche il rapporto fra i nobili prodotti di pregio del made in Tuscany agricolo e quella misteriosa sigla, Ttip, che se entrasse in vigore sarebbero guai seri per la tipicità delle nostre produzioni).
Ma in effetti non è neppure semplice ipotizzare un Prs pluriennale quando si è alla vigilia di un referendum che potrebbe, o meno, confermare l’impianto di una nuova Costituzione che ridisegnerà, e non poco, le competenze istituzionali fra centro e periferie: una Costituzione che riporterebbe a Roma ciò che pochi anni fa un’altra riforma costituzionale da Roma aveva allontanato. Difficile, cioè, puntare su una reale programmazione «regionale» quando il clima del Paese, nei confronti delle Regioni, sta iniziando a provare ciò che fino a poco tempo fa si provava per le Province: fastidio, se non ostilità. Difficile, dunque, volare alto sul ruolo delle Regioni quando tantissimi fra i poteri oggi regionali potrebbero ripassare, nell’entusiasmo popolare, di nuovo al centro.
Il «diversamente renziano» Rossi, favorevole al «nuovo Senato territoriale» di cui certo farà parte, sempre se la riforma passerà il vaglio, introduce due elementi tutti suoi: il «federalismo ad autonomia differenziata» (la possibilità di distinguere, e premiare, regioni «virtuose» da quelle che non ce la fanno e che, dunque, andrebbero «aiutate o commissariate») e il progetto «Italia di mezzo» (una sorta di maxi regione in grado di federare Toscana, Umbria e Marche).
Nei 26 progetti c’è tutto: dalla Piana fiorentina all’arcipelago toscano, dalla costa alle aree montane, dalla cultura alla banda (ovviamente ultralarga), dal contrasto contro i mutamenti climatici a quello contro le povertà, dai giovani agli vecchi, dal consumo di suolo alla cooperazione con l’Africa Subsahariana. E tanto altro. «Obiettivi particolarmente sfidanti», sostiene con orgoglio Rossi notando come («subito dopo Trentino e Lazio») la Toscana è la regione più «resiliente», quella più capace di reggere meglio contro la crisi.