Opinioni & Commenti
Il futuro del cristianesimo nel ritorno al passato
di Romanello Cantini
Tutto lascia credere che alla metà di questo secolo l’Africa sarà il continente con il maggior numero di cristiani al mondo. Mentre in Europa i cristiani diminuiscono nel continente nero i cristiani che erano solo dieci milioni all’inizio del secolo scorso sono oggi quasi quattrocento milioni. Dal punto di vista della sociologia religiosa il mondo di domani tornerà ad essere simile al mondo degli inizi del Medioevo quando c’erano più cristiani in Africa e in Asia che in Europa. Il ricordo di questo passato e la previsione di questo futuro mettono definitivamente in crisi l’idea corrente che la cristianità si debba identificare con il mondo e la cosiddetta civiltà occidentale. Non solo. La crescita impetuosa del cristianesimo africano soprattutto negli ultimi cinquanta anni smentisce il mito altrettanto diffuso per cui il cristianesimo africano sarebbe un prodotto esportato in Africa dal colonialismo. Al contrario i cristiani in Africa sono cresciuti soprattutto dopo la decolonizzazione. E non si può nemmeno continuare a insinuare che si tratta di una conversione superficiale.
Fra i cristiani africani ci sono purtroppo sempre più spesso dei martiri. Bisogna tenere conto di questa realtà per inquadrare il viaggio del Papa in Africa. Benedetto XV, come del resto Paolo VI, è un Papa che non viaggia semplicemente per incontrare il maggior numero di Chiese e per portare qua e là la cortesia della sua presenza.
È un Papa che nei suoi viaggi seleziona attentamente, forse bisognerebbe dire profeticamente, i luoghi della crisi e della speranza del nostro tempo. I suoi viaggi sono soprattutto viaggi simbolici in cui la geografia cerca soprattutto di intercettare la storia. Ed ecco che il Papa visita Ratisbona, Parigi, Londra , Berlino, i centri del cristianesimo in crisi eroso dall’agnosticismo e dall’individualismo, va in Turchia e in Palestina dove ci sono i nervi scoperti e i varchi essenziali del dialogo interreligioso a livello mondiale nel secolo che sta davanti a noi e infine con i suoi ottantaquattro anni si reca per la seconda volta nell’«Africa che avanza». Anche il piccolo Benin ha soprattutto un significato simbolico. Come ha ricordato padre Gheddo, là arrivò centocinquanta anni fa Francesco Borghero, il missionario di Alessandria, che con l’aiuto di alcuni schiavi neri liberati dai portoghesi da lì diede il via alla moderna evangelizzazione del continente, basata sulle missioni piantate nella boscaglia.
Il Papa ha ragione a richiamare soprattutto in Africa l’attenzione per il «povero, l’affamato, il malato, lo straniero, l’umiliato, il prigioniero, il migrante disprezzato, il rifugiato, lo sfollato». In nessun altro posto come in Africa purtroppo ancora oggi sono così numerosi coloro che Gesù proprio nel Vangelo di Matteo di domenica scorsa chiama «i più piccoli dei miei fratelli».
Il Papa mette inoltre in guardia contro il malgoverno, denuncia l’analfabetismo come una pandemia, invoca un rispetto più generale per la donna e per i bambini, si commuove per i malati di Aids e domanda per loro medicine, assistenza e amore. E chiede al resto del mondo una diversa economia, una «globalizzazione della solidarietà», una salvaguardia dei beni comuni e dell’ecosistema in un continente nei confronti del quale tanto spesso la rapina delle risorse si è accompagnata alla indifferenza per la più assoluta povertà.
Tuttavia per Benedetto XVI l’Africa resta «il continente della speranza». Soprattutto perché ci rimane ancora, nonostante i tanti drammi, un uomo integrale che non separa il materiale dal mistero che lo circonda, che conserva «una ricchezza del senso religioso, una percezione della realtà nella sua totalità con Dio». Quale che sia la religione dell’uomo africano il naturale non può essere separato dal sovrannaturale. Non esiste la laggiù la «riduzione al positivismo» che «spegna anche la speranza». Lo sappiamo. Per l’agnostico, almeno per quello di un tempo che non si è ancora estinto, quella che il Papa chiama freschezza era primitività e quello che il Papa chiama positivismo era progresso. Ma oggi, con tutto quello che sta succedendo in Europa, siamo sicuri che il futuro appartenga ancora a quell’uomo europeo di cui già Nietzsche affermava che dopo aver proclamato la morte di Dio era ora «il più infelice degli uomini»?