Opinioni & Commenti

Il fascino discreto della santità di cui c’è ancora segreta nostalgia

Le folle plaudenti, i numeri da record, il riscontro mediatico, sono motivo di sincera gioia, se si pensa che a suscitare tutto questo non è stato, come spesso accade, l’appuntamento con una vociante rockstar, ma il fascino discreto della santità, di cui gli uomini e le donne del nostro tempo hanno ancora, evidentemente, una segreta nostalgia. Pure, quest’ora di successo umano (che neanche Gesù ha disdegnato, quando la folla plaudente lo ha osannato all’ingresso in Gerusalemme), non deve far perdere di vista che sempre la comunità cristiana è chiamata a celebrare la festa della resurrezione del suo Signore a partire dalla sua passione.

Così, a evitare ogni possibile rischio di trionfalismo, papa Francesco ha impostato l’omelia per la canonizzazione dei Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II mettendo al centro, come il Vangelo domenicale del resto suggeriva, «le piaghe gloriose di Gesù risorto». Perché è significativo che proprio ad esse, e non alla sua gloria, il Signore, apparso ai suoi discepoli, si sia appellato per farsi riconoscere e suscitare la loro gioia: «Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore», scrive Giovanni (20, 20). In Luca il racconto è ancora più eloquente «Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: “Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho”» (24, 37-40).

Ricordando l’incredulità di Tommaso, poi convertita in adorazione dopo aver visto quelle ferite, il pontefice ha osservato: «Le piaghe di Gesù sono scandalo per la fede, ma sono anche la verifica della fede. Per questo nel corpo di Cristo risorto le piaghe non scompaiono, rimangono, perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi, e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà».

Il corpo piagato del Cristo, anche in questo momento di legittima gioia, rimane agli occhi della sua Chiesa il pegno dell’amore, della misericordia, della fedeltà di Dio agli uomini. Ed è perché hanno condiviso questa fedeltà nei confronti di tutti i feriti della storia che i protagonisti di questa canonizzazione sono stati santi. «Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno avuto il coraggio di guardare le ferite di Gesù, di toccare le sue mani piagate e il suo costato trafitto. Non hanno avuto vergogna della carne di Cristo, non si sono scandalizzati di Lui, della sua croce; non hanno avuto vergogna della carne del fratello (cfr Is 58, 7), perché in ogni persona sofferente vedevano Gesù».

È perché si sono sporcati le mani con il dolore umano, non per i loro successi politici, non per il loro prestigio, non per gli onori che sono stati loro tributati in vita, che Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II sono stati santi. Il potere non va demonizzato, ma, se non viene impiegato per servire e soccorrere i fratelli, non rende santi. E «sono i santi che fanno andare avanti la Chiesa!», ha ricordato il papa Francesco. 

Per troppi secoli, in passato, i santi sono fioriti al di fuori della curia vaticana e i supremi reggitori della Chiesa non sono stati santi. Un paradosso, se si pensa che il titolo ufficiale di un papa è «Sua Santità»! Per troppi secoli si è data l’impressione che ci fossero due modi di essere cristiani, uno evangelico e uno istituzionale, magari rispettosi l’uno dell’altro (Innocenzo III approvò la regola di san Francesco d’Assisi, e questi non si schierò mai con gli eretici che in quel tempo  contestavano l’istituzione ecclesiastica), ma raramente coincidenti.

La canonizzazione di domenica scorsa ha sottolineato che vi è una svolta, già iniziata, peraltro, nella seconda metà dell’Ottocento, grazie anche alla «provvida sventura» della perdita del potere temporale. E non a caso ha partecipato alla cerimonia  il pontefice emerito, Benedetto XVI, che forse più di ogni altro ha contribuito a sottolineare che il papa non è un semi-dio da venerare, ma un fratello vulnerabile anche lui, capace di piegarsi sulle ferite degli altri perché consapevole delle proprie.

E pieni di ferite sono stati anche questi suoi predecessori, con i loro limiti, con le loro debolezze e infermità, ma che hanno avuto il coraggio di prendere su di sé la loro difficile missione e hanno ricevuto da Dio la forza che non avevano. «Sono stati due uomini coraggiosi», ha detto di loro papa Francesco.  «Sono stati sacerdoti, vescovi e papi del XX secolo. Ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti. Più forte, in loro, era Dio; più forte era la fede in Gesù Cristo Redentore dell’uomo e Signore della storia; più forte in loro era la misericordia di Dio che si manifesta in queste cinque piaghe». E ora noi li preghiamo perché il cammino della Chiesa continui ad essere all’insegna di questa misteriosa forza che scaturisce dalla debolezza.