Opinioni & Commenti
Il declassamento del pane crea un vuoto nella storia
di Arturo Paoli
Da oltre sessant’anni prete, per la prima volta ospite di una canonica riportata allo splendore di origine da un lungo restauro, mi sono trovato a occuparmi della gestione di una casa. E questa gestione anche se non rappresenta per me un peso per la generosa collaborazione di famiglie vicine, mi offre un’esperienza sgradita: il pane. Dalla mia infanzia e durante la mia permanenza lucchese, conclusasi a pochi anni dal termine dell’ultima guerra, il pane godeva una posizione privilegiata nella nostra esistenza: guadagnarsi il pane significava il tutto necessario all’esistenza. Un nostro vicino, molto generoso, era per mia madre buono come il pane. Chi si guadagnava il pane lavorando era indicato come la controfigura dell’ozioso e dello sfruttatore. Molti alimenti erano classificati companatico e la parola significava compagni del pane. Mi veniva l’immagine che il pane si degnasse accogliere nella sua compagnia altri alimenti perché godessero la dignità di alimentare l’uomo. Guadagnarsi il pane definiva l’emancipazione dalla famiglia di nascita che ci manteneva fino a quando potessimo avere un’entrata anche piccola frutto del nostro lavoro.
E il nostro maggiore poeta fa l’esperienza di quanto sia duro ricevere il pane quando non rappresenta più il diritto del lavoro. Dante non era certamente un ozioso ma la sua condizione di esule e forse anche di poeta improduttivo, lo portavano a cercare ospitalità nelle corti e forse doveva far parte del gruppo dei giullari che allietavano gli spazi dei riposi dei fieri feudatari. E così l’esule pellegrino ci confida la sua triste scoperta di quanto sa di sal lo pane altrui (Par. XVIII). Alla straniera che lo supplica insistendo fino ad irritare i compagni di strada, Gesù risponde seccamente: non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini (Matteo 15,26). E con queste parole indicava l’identità del pane con la sua missione di inviato del Padre.
La scena della moltiplicazione dei pani raccontata nel capitolo 6 di Giovanni, ha offerto nel nostro tempo al portoghese Belo, dichiaratamente marxista, la base di una riflessione profonda sulla intuizione evangelica che suggerisce l’uscita dal capitalismo in questa decisione di Gesù di distribuire i cinque pani d’orzo e i due pesci trovati nello zaino di un ragazzo che avrebbe sfamato migliaia di persone. Il capitalismo rappresenta l’antitesi di questa decisione di Gesù di moltiplicare il pane per saziare abbondantemente la fame. Nel capitalismo il denaro è oggetto di accumulazione e quindi feticcio staccato dalla sua realtà simbolica di soddisfare la fame, cioè il bisogno reale dell’uomo.
Questo mio indugio sul pane è stato stimolato dal titolo di un articolo di Repubblica (24 settembre) Il pane è d’oro. L’intenzione di questo articolo è quello di trasmettere la notizia dell’aumento di prezzo del pane. Ma ha rinnovato la mia sofferenza di vivere in un’epoca in cui il pane d’oro è stato svalutato al massimo fino a entrare nei cassonetti e a diventare spazzatura per diverse decine di tonnellate. Mi pare che questo declassamento del pane costituisca un vuoto nella storia che ci trasmette il vero motivo di tutte le rivoluzioni: il pane. Nei Promessi Sposi si parla della folla infuriata di Milano, inasprita dalla dominazione spagnola, che come primo obiettivo assalta un forno gridando pane, pane pane. Mi è tornato alla memoria che quasi umoristicamente il Manzoni ha riscoperto l’insegna milanese del forno composta di parole così eteroclite così bisbetiche e così selvatiche come el prestin di scanse (Cap. XII). E questo pane per noi credenti diventa il simbolo della massima espressione di resistenza pacifica contro tutte le forme di violenza che sconvolgono la nostra storia e fanno apparire sempre più lontana l’epoca di una lunga convivenza pacifica: Gesù prima di morire si mise intorno a una mensa con i suoi discepoli e prese il pane