Opinioni & Commenti
Il Crocifisso fra culto e musealizzazione
È sicuramente da almeno un secolo che i Crocifissi, concepiti dagli artisti per fini devozionali, hanno iniziato il loro itinerario museologico con un irreversibile allontanamento dalla loro funzione originaria. Non è questione nuova, che negli ultimi tempi si è complicata per la necessità di regolamentare l’accesso ai luoghi sacri che conservano capolavori d’arte oggetto di interesse turistico (inducendo ad introdurre una «bigliettazione» da riversare nei costi di «conservazione» delle stesse opere d’arte). Indubbiamente, si tratta di un problema delicato, talvolta mal compreso, altre volte pregiudizialmente e volgarmente strumentalizzato fino a far parlare stupidamente di simonia.
Nella saggezza antica, il comune di Firenze fu tra i primi a creare un’Opera (laica), finalizzata alla costruzione della nuova cattedrale di Santa Maria del Fiore (1296) e a conservarne le opere, così come ancora oggi fa. Ovviamente, ai nostri giorni, con i flussi di centinaia di migliaia di persone, c’è da attualizzare codesta «missione», perseguendo le soluzioni più ragionevoli.
In estrema sintesi, il problema si pone in questi termini: un’opera d’arte sacra, poniamo un «Crocifisso», va tutelato e garantito all’esercizio del culto e, solo secondariamente, reso accessibile al turismo d’arte ? La ragione vorrebbe che fosse trovata una condizione di equilibrio tra le due funzioni, con priorità alla prima in quanto condizione sorgiva originaria. Ma sul piano pratico, quanto è realizzabile codesta soluzione? Prendiamo il caso del «Cristo di Cimabue», che si ricorderà quale vittima eccellente, anzi simbolica dei danni al patrimonio artistico dell’alluvione del 1966; restaurato (con le lacune della superficie perduta, le «stigmate» dell’alluvione, appunto) e ricollocato nel Refettorio di Santa Croce con un sistema di carrucole tali da garantirne l’innalzamento in caso di nuova necessità, torna oggi in basilica. Ma ovunque venga messo, in Basilica, confliggerebbe fra i fedeli in preghiera e i flussi turistici: ecco perché si opta per la collocazione in Sacrestia, che resta tuttavia – se pur a una quota più elevata rispetto a quella del Cenacolo – in commistione con la vestizione e la svestizione dei celebranti con i parati sacri. D’altra parte, come impedire al turismo d’arte nel suo percorso urbano (non simpatico, talvolta odioso, ma comunque ineludibile) di vedere il Crocifisso di Cimabue?
Dunque, allo stato dei fatti, il processo di musealizzazione delle opere d’arte sacra sembra realisticamente inarrestabile: almeno finché le tecnologie di «simulazione virtuale» (che già sono galoppanti) non consentano altre soluzioni. E in ciò semmai di più dovrebbe fare la catechesi dell’opera d’arte: nel senso che il capolavoro – il masterpiece – non sia approcciato per i soli valori artistici ma spiegato, introdotto ermeneuticamente, per il suo significato religioso. E in ciò, per fortuna, a Firenze si lavora già da tempo.
Certo, il problema della salvaguardia dei «beni culturali sacri» è ben cambiato dalla Conferenza episcopale toscana che, nel 1979, col coordinamento di Mons. Agresti (arcivescovo di Lucca) affrontò numerosi aspetti del rapporto Chiesa-Stato: ma allora lo Stato copriva, mediamente il 90 % dei costi manutentivi e di restauro del patrimonio architettonico religioso; oggi è sostanzialmente assente, senza risorse nemmeno per il proprio patrimonio demaniale. Da qui la necessità di rivedere e provvedere a risposte urgenti che, pur tenendo conto dei documenti della chiesa (e dello stato) , pur tenendo presenti le raccomandazioni della Pontificia Commissione per la conservazione del patrimonio artistico e storico, dia risposte immediate, operative, equilibrate.
Problema altro è quello della conservazione e della sicurezza delle opere d’arte sacra nelle chiese, generalmente indifese e aperte all’educazione/diseducazione di chi entra. Gli ultimi «fatti di Prato» non possono esser sottovalutati proprio in questo senso. San Pier Forelli, (San Pierino) nel cuore della città, così prossima al Convitto Cicognini (simbolico luogo della cultura della città) ha avuto ferite (da restaurare) che ripugnano. Né conforta la riflessione che la storia della chiesa è costellata di episodi sacrileghi, talvolta riconducibili all’odio irrazionale, altre volte a raptus di follia. E oltre le indignazioni, le proteste, i paragoni con le capacità reattive di altre religioni, resta il fatto che nessuno si può permettere un presidio fisso di sorveglianza , così che, alla fine, siamo di fronte a due alternative realistiche: chiudere per lunghe ore i luoghi di culto (aprendoli solo in coincidenza con le celebrazioni), così come disgraziatamente già accade a Firenze a Santo Spirito (nonostante i generosi tentativi per evitarlo da parte di comitati) o garantirne un presidio costante.
Ma in quest’ultimo caso, dovrebbe essere la stessa comunità che gravita sull’immobile sacro a mobilitarsi in questo senso. E allora domandiamoci: c’è questa maturità? È avvertibile questo spirito di dedizione? È una verifica da fare, un’interrogazione per ciascuno di noi. Altrimenti, come ama dire un simpatico amico per l’appunto pratese, tutto «resta letteratura…».