Vita Chiesa
Il cristiano e i soldi: «La sete di denaro, radice di ogni male»
Forse, consapevoli di questi rischi, i tanti investitori, istituzionali e non (vi sono infatti grandi gruppi bancari coinvolti insieme a migliaia di piccoli risparmiatori), avrebbero potuto accorgersi dall’esame dei bilanci, come di fatto si sono accorti gli analisti di alcuni fondi comuni di investimento, che, almeno a partire dall’anno 2000, in Parmalat qualcosa non andava e che, di conseguenza, pur non prevedendo un tracollo dalle proporzioni poi rivelatesi, era meglio stare alla larga da quell’investimento. Infatti, nonostante i numeri riportati in bilancio poi risultati non veritieri, la Parmalat si rivelava una pessima azienda, con indici di liquidità penosi e attività finanziarie incomprensibili, parametri reddituali e finanziari non buoni che rivelavano una continua erosione di cassa, un rapporto debito-fatturato e un margine operativo sensibilmente inferiore a quello di altri competitori internazionali quali Danone, Unilever e Nestlé, una politica delle acquisizioni spesso troppo care e quasi sempre finanziate con debiti, poca trasparenza nella comunicazione da parte del managment.
Il fatto è che sebbene l’aspetto del rischio sia sottoposto a valutazioni che utilizzano modelli matematici sempre più sofisticati, e nonostante l’odierna perfezione dei sistemi informativi e delle conoscenze tecniche, sembra che la percezione del rischio continui a rimanere basata su aspettative soggettive, spesso umorali, circa i futuri sviluppi del mercato e sulla possibilità dei debitori di onorare i debiti in scadenza. Tanto per guardare un po’ fuori di casa nostra, la serie di scandali finanziari che ha investito gli Stati Uniti nel primo semestre del 2002 è emblematica di quanto andiamo dicendo. Oltre ad Enron, Tyco, Worldcom, Aol Time Warner, Xerox, Disney, vi era notizia di altre 145 compagnie sotto inchiesta.
Queste brevi considerazioni rimarcano, ancora una volta, l’urgenza dell’inquadramento dell’attività economica all’interno di ben determinati parametri etici che, pur ponendo dei limiti alla ricerca della massimizzazione indefinita del profitto, garantiscono tuttavia la giustizia e l’equità delle relazioni economiche a difesa dai crac finanziari cui stiamo oggi assistendo.
A questo riguardo il principio della destinazione universale dei beni che riconduce al creatore la proprietà assoluta di tutti i beni costituendo l’uomo come amministratore della ricchezza del creato, è fondamentale. Su questa base, infatti, è possibile affermare che i beni della creazione devono equamente affluire nelle mani di tutti secondo la regola della giustizia che è inseparabile dalla carità (Gaudium et Spes 69). Tutti gli altri diritti di qualunque genere, compresi quelli del libero commercio, sono subordinati a tale regola ed a questa riconducibili (Populorum Progressio 22). In questo senso allora qualsiasi tipo di attività speculativa, mirante all’esclusiva massimizzazione del profitto, è di intralcio alla realizzazione della giustizia e quindi censurabile. La Dottrina Sociale della Chiesa ha da tempo fatto luce su questi argomenti. Già la Rerum Novarum di Leone XIII, riprendendo il pensiero di San Tommaso d’Aquino, aveva chiaramente espresso che, riguardo alla ricchezza, si debba distinguere il legittimo possesso dal legittimo uso, nel senso che l’uomo non debba considerarsi in diritto di usare ed abusare della ricchezza in suo possesso, ma debba piuttosto ritenersi un amministratore, di quanto è nella sua disponibilità, a favore delle altrui necessità (Rerum Novarum 19). Come pure Pio XI con la Quadragesimo Anno aveva già introdotto il tema della responsabilità manageriale nei confronti del bene comune in generale e dei livelli salariali e occupazionali in particolare quando, nell’invitare alla considerazione dello stato oggettivo dell’azienda in sede di rivendicazione salariale, precisa anche che, se lo stato di scarsa redditività dell’impresa è dovuto ad indolenza, ad incapacità e a noncuranza del progresso tecnico ed economico, questo non sarebbe da ritenersi una giusta causa per diminuire il salario agli operai (Quadragesimo Anno 73), riprovando implicitamente condotte imprenditoriali avventate.
Sono queste soltanto alcune, brevi indicazioni rintracciabili nel patrimonio della Dottrina Sociale della Chiesa che è urgente prendere sul serio se veramente si desidera salvaguardare l’uomo da condotte economiche di corto respiro, che minano il consolidamento dell’armonia e della pace all’interno della famiglia umana. Questo anche nella convinzione che, come insegnava don Luigi Sturzo, l’economia senza etica è diseconomia, ovvero considerata la moralità come la razionalità dell’agire, un sistema economico che non stima l’integrità morale come uno dei suoi valori fondamentali, a lungo andare, è destinato a fallire, trasformando l’economia in diseconomia e disutilità sociale. Per questo dovremmo tutti cercare di evitare di mettersi nella condizione indicata dal salmista quando rileva che «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono», attraverso la continua meditazione del fatto che: «Se vedi un uomo arricchirsi, non temere, se aumenta la gloria della sua casa. Quando muore con sé non porta nulla, né scende con lui la sua gloria. Nella sua vita si diceva fortunato: Ti loderanno, perché ti sei procurato del bene. Andrà con la generazione dei suoi padri che non vedranno mai più la luce». (Salmo 49).