Cultura & Società
Il castagno, da pane dei poveri a frutto pregiato
Da pane dei poveri a frutti pregiati, ne hanno fatta di strada castagne e marroni. E pensare che, pur belli, saporiti e nutrienti, dopo aver salvato per secoli milioni di vite, hanno passato decenni di crisi, rischiando di scomparire dalle nostre tavole.
Finita la seconda guerra mondiale, com’è noto, le montagne toscane (e italiane) hanno conosciuto un fenomeno di massiccio spopolamento.
Colline, pianure e città offrivano di più e con minor fatica, mentre i monti garantivano sudore e povertà di raccolti: gli appezzamenti davano un po’ di patate e di cipolle che, insieme all’onnipresente castagneto, piccolo o grande, assicuravano la sopravvivenza durante l’inverno.
A causa dell’emigrazione verso altri lidi, i castagneti furono abbandonati; numerose piante furono tagliate per ricavarne tannino per conciare le pelli; e si vedono tuttora le loro basi coronate di polloni. La produzione di castagne e marroni si ridusse a poche migliaia di quintali.
Negli anni ’90, montagne e castagneti rinacquero, anche perché il marrone era diventato un frutto apprezzato; i castagneti, soprattutto quelli più facili, vicini alle strade sono stati ripuliti e riordinati (mentre quelli al di sopra di una certa quota o in zone più impervie sono persi).
La fatica però è rimasta la stessa (o quasi) del passato. C’è molto lavoro in un castagneto, ed è quasi solo manuale: è difficile usare le macchine, perché numerose piantagioni sono troppo in pendenza.
Veniamo alla coltivazione, alle sue regole e procedure. Fu la Gran Contessa, Matilde di Canossa, 1000 anni fa a dare le prime dritte per la castanicoltura, indicando anche la distanza ideale fra le piante (il «sesto matildico»): circa 10 metri. I risultati si videro, la produzione incrementò.
A quei tempi, e nei secoli a venire, i castagni non si potavano, ma si lasciavano crescere; una sorta di potatura era fatta a ottobre, durante la raccolta: i contadini, battendo i ricci con alte pertiche, spezzavano alcuni rami.
I potatori odierni sono tecnici competenti: con strumenti specifici (imbracature, motoseghe ecc.), salgono sulle piante e tagliano i rami per conferire alle chiome la forma a ombrello, renderle più vuote all’interno e più folte all’esterno; così la luce si estende su tutto l’impianto vegetativo. La potatura «grossa» viene effettuata ogni 6-7 anni, mentre ogni anno alle piante sono dedicati piccoli interventi. E se ieri venivano lasciate crescere fino a misure da record (25, 30, 35 metri di altezza), oggi si cerca di tenerle a 15 metri.
I castagni sembrano robusti, invece hanno bisogno di attenzioni: per esempio, essendo vittime dell’edera, senza un continuo lavoro di pulitura dal rampicante che avvolge tronco e rami, la pianta soffoca. Durante l’estate si tagliano i getti nuovi che nascono in continuazione alla base delle piante, e si pulisce il sottobosco da felci, rovi ecc. (anche per vedere meglio dove cadono i frutti, per raccoglierli proprio tutti). Per tale lavoro una volta si usava la «ferra» (sorta di falce), oggi il decespugliatore; dopo, comunque, i resti si rastrellano a mano.
Verso la fine di settembre iniziano a cadere castagne e marroni. Non tutti insieme, però: ogni giorno la pianta dona frutti maturi; quindi la raccolta è continua, dalla mattina alla sera, tutti i giorni per circa un mese.
E vanno presi subito, perché, soprattutto i marroni, sono deperibili, anche esteticamente: lasciati a lungo per terra, a causa dell’umidità, l’iniziale colore brillante si opacizza e diventa più scuro.
Ci si può domandare quanti frutti dà ogni pianta; a Marradi, patria del Marron buono, quelle iscritte all’Igp danno mediamente 15 chili di prodotto di bella pezzatura, cioè 80-90 frutti per chilo. Ma ci sono piante che ne fanno di più grandi: 60-65 frutti per chilo. Anche se non c’è connessione fra aspetto e gusto, il marrone grosso è più ricercato.
I frutti vengono selezionati uno per uno, manualmente. Il 30% del prodotto è «bacato» e non vendibile. Alcuni lasciano il frutto guasto nel castagneto, ad altri serve per produrre farine – se non troppo danneggiato – o alimentare il maiale. (Questo, da ottobre a dicembre, è nutrito con ghiande, castagne e marroni; a gennaio, dopo che le sue carni si sono ben insaporite, viene «festeggiato»).
Dopo la raccolta, inizia il lavoro dei vagli, macchine dotate di rulli; ogni rullo ha fori con diametro variabile: 26, 27, 28, 30 mm. La scelta delle misure dipende dal proprietario che conosce le caratteristiche del suo castagneto.
Buttati i frutti nella tramoggia, il vaglio comincia a girare: dal rullo del 26 escono i marroni piccoli (per farine o foraggi), dal rullo del 28 esce il cosiddetto mezzomarrone, la media pezzatura adatta per le caldarroste; alla fine del vaglio escono i «belli», i marroni grossi, quelli più ricercati che si sciolgono in bocca, colmandola di un sapore delicato, di nocciola o vaniglia. In alcune aziende, una persona, a ogni calata dal vaglio, seleziona i frutti. Il lavoro descritto fa capire perché un chilo di marroni costa anche 9 euro.
Ci sono vari metodi per la vendita: c’è chi la fa a casa; in certi agriturismi, vige una sorta di «mezzadria» con il cliente: questo raccoglie i marroni durante una passeggiata nel castagneto; ne consegna metà ai proprietari e si tiene il resto. Le maggiori aziende portano il prodotto alle ditte di trasformazione, ai mercati, alle sagre locali: qui possono vendere anche tutto il raccolto con guadagni migliori, mancando l’intermediazione del commerciante.
Nel periodo di ferma vegetativa della pianta, febbraio-marzo, un tecnico specializzato, con appositi strumenti, innesta gli alberelli nuovi, destinati a divenire piante da frutto, con «marze» di piante domestiche (solitamente rametti con gemme, lunghi una ventina di centimetri). Questo perché una pianta nata da un marrone non è automaticamente un castagno da marrone, ma una pianta selvatica.
Gli alberi di un castagneto, a una certa altezza del tronco, hanno abbastanza visibile la linea dell’innesto. Si innesta in alto, altrimenti i getti nuovi diventano una golosità per caprioli.
In periodi di siccità, i castagneti in posizione più favorevole, vicino a strade e a case o non troppo in pendenza, sono irrigati: anche il castagno, per portare avanti la fruttificazione, ha bisogno di acqua.
Qualcuno concima. E si dice che la pollina (il guano dei polli), oltre a nutrire le piante, le aiuta a difendersi dal nuovo pericolo dei castagneti: la vespa cinese (Dryocosmus kuriphilus).
Difettarono i controlli consueti per verificare la presenza o meno di organismi indesiderati.
I primi castagneti a essere colpiti furono in Piemonte; poi tutto il nord Italia è stato invaso. Quindi è toccato a quei paesi europei dove la castanicoltura è più sviluppata.
Ecco come agisce questo nostro alleato, anch’esso di origine cinese: nelle galle dove sono le larve della vespa, depone le proprie uova; le larve del Torymus mangiano quelle del cinipede.
Anche se il cinipede è molto prolifico (fino a 150 uova ogni femmina) e il Torymus meno (circa 70 uova), i risultati sono confortanti: il Torymus lavora bene, a conferma degli eccellenti risultati ottenuti in paesi quali Giappone e Stati Uniti.
Infatti in Piemonte, trascorsi 7 anni dai primi lanci del Torymus, si è registrato un netto miglioramento nell’apparato fogliare delle piante colpite; i castanicoltori hanno ricominciato la raccolta del prodotto. In Toscana possiamo beneficiare dell’esperienza piemontese, sperando in risultati positivi in breve tempo.
Dalla prossima primavera, a seguito di un protocollo d’intesa fra il ministero, il Csdc e l’Università di Torino, saranno fatti migliaia di lanci di Torymus sull’intero territorio nazionale. In seguito le Regioni potranno produrre autonomamente l’insetto antagonista della vespa per giungere all’unico equilibrio possibile: un ridotto numero di galle infette e un ritorno ad abbondanti produzioni.