Fiesole
Il cammino di Santiago per i 25 anni di sacerdozio. L’esperienza di don Gabriele e don Roberto
«Ogni anniversario di ordinazione siamo andati insieme a fare un viaggio. Taizé per i 10 anni di sacerdozio, Parigi per i 20 anni. Quest’anno, per il venticinquesimo, avevamo pensato a Londra. Ma poi mi è venuta l’idea: perché non facciamo il cammino di Santiago per ringraziare per i 25 anni e per rinnovare la scelta di vita che abbiamo fatto?». A raccontarci come è nato questo pellegrinaggio è don Gabriele Bandini, parroco a Rignano sull’Arno. La proposta è stata raccolta inizialmente con qualche dubbio dal compagno di viaggio, don Roberto Brandi, parroco a Reggello. «Temevo – ci dice don Roberto – per l’impegno fisico che il cammino comporta». L’itinerario scelto è quello che parte da Roncisvalle: circa 800 chilometri da percorrere a piedi in un mese. «Ma le perplessità sono svanite e sono state superate dall’entusiasmo», sottolinea don Brandi. «E comunque, se questo pellegrinaggio si è potuto realizzare – sottolineano all’unisono – è anche grazie ai confratelli preti che in quel periodo ci hanno sostituito nel servizio in parrocchia».
I due sacerdoti – entrambi sono della diocesi di Fiesole – si conoscevano già prima di seguire la vocazione al sacerdozio: Roberto, nato nel 1965, e Gabriele, nato nel 1967, infatti frequentavano i «geometri» – a due classi di distanza – alla «Vasari» di Figline Valdarno. Uno frequentava l’Opera La Pira, l’altro gli scout. Entrambi parteciparono alla marcia francescana nell’estate del 1991. «La prima esperienza di cammino fatta insieme», raccontano. Ma l’amicizia nacque negli anni del Seminario: entrarono, con qualche mese di differenza, proprio nel 1991. E poi – sempre insieme – furono ordinati sacerdoti nella cattedrale di Fiesole dal vescovo Luciano Giovannetti il 5 aprile 1997. Da allora l’amicizia è rimasta e si è rafforzata, a mano a mano, con il passare del tempo.
La partenza era programmata all’inizio di agosto, il ritorno nei primi giorni di settembre. «Un mesetto prima – racconta don Brandi – ho iniziato a fare le prime camminate per farmi trovare un po’ preparato. Ma la settimana prima di partire mi sono slogato una caviglia. Poi mi sono venute una serie di vesciche ai piedi. Infine ho avuto problemi di calcoli renali. Pensavo di non riuscire a partire. Ma per me era chiaro che dovessi andare». Don Bandini invece ha fatto solo tre camminate nei tre sabati precedenti alla partenza. In totale una ventina di chilometri: «Sapevo che erano troppo pochi. La conseguenza è stata la tendinite alle gambe che mi ha colpito poco dopo l’inizio del cammino. Credevo di non riuscire a portarlo a compimento. Ma invece, saltando qualche tappa, ce l’ho fatta».
E così il cammino ha avuto inizio. «Stupore e curiosità. Queste le prime impressioni alla partenza quando era ancora buio. Anche con qualche preoccupazione per la mia condizione fisica che non era ottimale», sottolinea don Roberto. «La prima sensazione: l’entusiasmo di poter fare questa esperienza. La seconda: la lunghezza, Santiago era molto lontano. Ma anche la consapevolezza di affrontare il cammino giorno per giorno», aggiunge don Gabriele.
Il cammino è costellato di alberghi, gestiti dai Comuni, dalle parrocchie, dalle associazioni, da privati. «Il senso di accoglienza che si riceve dopo una dura giornata passata a camminare è bellissimo – spiega don Gabriele -. Soprattutto in alcuni luoghi. A me è rimasto impresso in modo particolare quello di San Nicolas che è gestito dalla confraternita di San Iacopo di Perugia. Un piccolo albergo con 12 posti, con il gesto molto bello della lavanda dei piedi ai pellegrini che arrivano e si fermano. Sono luoghi molto intimi, le persone che fanno accoglienza sono spesso volontari che dedicano il loro tempo a questo servizio. Sono tappe che fanno la differenza nel cammino». Per don Roberto c’è da sottolineare prima di tutto l’aspetto paesaggistico: «Ci sono momenti in cui cammini da solo, con campi di grano a perdita d’occhio. È molto suggestivo e intimo. E poi ricordo i monti della tra la Castiglia e la Galizia: lì cominci a intravedere la méta finale». C’è poi l’aspetto artistico: «Il succedersi delle cattedrali ti scandisce il ritmo: Burgos, Leon, Astorga, Santiago. Si rimane incantati per tanta bellezza». Infine c’è l’aspetto comunitario: «Ci sono ostelli molto affollati e più anonimi, in genere quelli municipali. E altri molto più intimi dove c’è il tentativo di fare dei gesti di evangelizzazione. A me, in questo senso, ha colpito quello di Ligonde gestito da una comunità evangelica, una scoperta inaspettata».
Don Brandi poi fa un collegamento tra il cammino di Santiago e il cammino sinodale che la Chiesa ha avviato. «Quando si parla di sinodalità, si parla di camminare insieme – osserva -. È quello che abbiamo fatto in questa esperienza. Abbiamo camminato insieme, io e Gabriele, ma con noi c’era l’umanità. Sul cammino di Santiago erano migliaia le persone: un’umanità con tante differenze e di diverse nazionalità. Ci sono giovani, anziani, famiglie, persone sole, credenti, atei, pellegrini, runner: tutti però si salutano sul cammino ed entrano in relazione. Lì il contatto con la diversità del mondo è più forte rispetto alla vita quotidiana. E mentre si cammina e si parla il cuore si apre: quando qualcuno ha scoperto che eravamo sacerdoti le parole si sono fatte confidenze».
«Nella vita di tutti i giorni si cerca spesso la prestazione – sottolinea don Gabriele -. Ma sul cammino le regole si ribaltano. Lì ciò che ti unisce è la fatica, la sofferenza che diventa cemento. Non solo. Quando affiorava il nostro essere prete scattava spesso la domanda su Dio, sulla Chiesa, soprattutto da parte di persone non praticanti o anche molto lontane dalla fede. È stata una bella opportunità di dialogo offerta dal cammino sia per noi che per loro».
Il momento più difficile per don Brandi è stata la partenza, a causa delle difficoltà fisiche con cui era partito da casa: «Ma sapevo dentro di me che dovevo andare. E poi il cammino ti collega la mente direttamente al corpo e te la purifica. E così il cammino diventa spesso un ospedale da campo: le difficoltà fisiche emergono ma il Signore anche in questi momenti si fa presente». Per don Bandini invece le difficoltà sono arrivate a metà, quando è emersa la tendinite in un primo momento trascurata perché scambiata per banale dolore alle gambe: «Il cammino per me è stato anche interiore oltre che fisico. Ci sono stati momenti in cui non riuscivo più a camminare per il dolore. Anche questa è stata una lezione: accettare con umiltà di non farcela, di fermarsi qualche giorno e di spostarsi con il pullman per alcune tappe. Capisci che il cammino, come la vita, può essere diverso da come te lo eri immaginato, ma non per questo è meno bello e perde di valore. L’essenziale del pellegrinaggio è l’arrivo alla mèta e l’incontro con San Giacomo».
E infine l’arrivo a Santiago. «Gioia e stupore sono le due sensazioni principali – racconta don Roberto -. La piazza di fronte alla splendida cattedrale era piena di pellegrini che come noi avevamo compiuto il cammino. C’era una bellezza nell’aria che ci ha contagiati». Ancora più bello per don Gabriele è stato l’ingresso in cattedrale: «L’arrivo è una gioia grande, difficile da descrivere. E la sensazione all’entrata è molto intensa».
Nello zaino spirituale tanti i doni riportati a casa. «Sono tornato con tanta gioia e gratitudine – sottolinea don Bandini – per questi 25 anni di sacerdozio e con tanta voglia di continuare a camminare con la gente in parrocchia e in diocesi. È stato un grande regalo e una bella esperienza che sento di aver bisogno ancora di elaborare: il cammino di Santiago è una grande parabola della vita dell’uomo verso l’incontro con Dio». «Il cammino – aggiunge don Brandi – è un simbolo parlante del camminare insieme e del cammino dell’umanità. Continuerà a parlarmi attraverso le esperienze fatte, le suggestioni vissute, le persone incontrate. Fare il cammino, con milioni di persone che lo hanno fatto prima di noi, ti dà la consapevolezza che è un’esperienza secolare: la tomba di San Giacomo è qualcosa di grande che attrae in maniera più o meno consapevole. Ma non è un cammino casuale. E così è anche la vita: talvolta c’è chi zoppica, chi si ferma, chi ha difficoltà a ripartire. Come cristiani dobbiamo essere al fianco delle persone, rialzare chi ha bisogno e riprendere con loro il cammino verso il Risorto che orienta e dà luce. Noi cristiani siamo depositari di quello che la gente cerca, se non lo offriamo – conclude don Roberto – tradiamo la nostra identità».