Cultura & Società
Il biografo di Dante e Petrarca
di Antonio Lovascio
Tutti pazzi per Dante. A Firenze e in Toscana si preannuncia un’altra estate ricca di eventi all’insegna del Sommo Poeta; la «sorgente», come lo definiva Mario Luzi. Ma per fortuna su questo poliedrico personaggio artistico non si sono mobilitati solo cantori più o meno eccellenti sull’onda della passione di Roberto Benigni e Vittorio Sermonti. I nostri atenei sono infatti impegnati più che mai nella ricerca, per saperne di più non solo sulle sue Opere, ma anche come abbia vissuto a Firenze sullo scorcio del Duecento, sui vent’anni dell’esilio che sono, per noi, quasi solo un rosario di nomi: Lunigiana, Bologna, Verona, Romagna, Malaspina, Scaligeri, da Polenta. E proprio la presenza di Dante in Lunigiana, nel castello dei Malaspina, ora porta gli studiosi ad inserire a pieno titolo pure Pisa tra le città dantesche. Grazie a questi approfondimenti non ancora esauriti, il «sistema Dante» ci scorre davanti come una piacevole fiction, soprattutto quando il filo della narrazione è condotto da un docente estroverso, prolifico e creativo come Marco Santagata (nella foto), uno dei massimi esperti di lirica classica ed allo stesso tempo scrittore di successo, autore di numerosi libri e saggi su Dante e Petrarca, vincitore di un Premio Campiello.
Professor Santagata, presto gli studi su Dante si arricchiranno con la biografia che sta completando. A che pubblico è rivolto questo volume? Ci può anticipare qualche novità?
«Sarà in libreria alla fine di maggio. La scommessa è di suscitare l’interesse del pubblico colto, o per lo meno curioso, e nello stesso tempo di offrire uno strumento di lavoro agli specialisti con un volume che unisce a una scrittura il più possibile piana e accattivante una notevole base documentaria. Il rischio, ne sono consapevole, è di scontentare entrambe le categorie di lettori. Nella mia biografia non mancano le novità: alcune, poche, anche di carattere documentario (per esempio, il giorno, il mese e l’anno dell’uccisione di Geri del Bello). I dati nuovi sono pochi perché è estremamente difficile acquisirli dopo un secolare lavoro di ricerca. Le novità più rilevanti scaturiscono da una diversa lettura di quelli conosciuti. Ne esce il ritratto di un Dante che nella sua vita cambia spesso posizione e schieramento politico, che muta i giudizi sulle famiglie che lo ospitano, sui loro amici e nemici, a seconda delle circostanze, che, nel tentativo di ritornare in patria, perfino si umilia chiedendo perdono ai fiorentini: insomma, un Dante diverso dall’uomo tutto d’un pezzo e dalle convinzioni granitiche che ci è stato raccontato. Nuovo è anche il ridimensionamento del ruolo degli Scaligeri a favore di quello esercitato dai Malaspina, così come si discosta da quelle correnti la ricostruzione dei suoi spostamenti e dei luoghi in cui ha soggiornato. Pisa, per esempio, acquista una rilevanza non riconosciutale fino a oggi. È qui che egli scrive la Monarchia».
Nel saggio «Io e il mondo» pubblicato alla fine dello scorso anno da «Il Mulino» ha proposto un Dante innovatore della storia e della lingua, quasi un profeta che vuole cambiare il mondo. Questo è il maggior tratto di attualità dell’autore della «Divina commedia»?
«In tutto ciò che ha detto, fatto o visto, Dante tende a scorgere il segno del destino, il segnale della sua diversità, della sua unicità, fino al punto di sentirsi e presentarsi investito di una missione profetica. Il profetismo è fondamentale nell’impostazione della Commedia, ma affonda le radici in un tratto della personalità dantesca riscontrabile in tutte le sue opere. Eppure non direi che questo è ciò che ne fa un autore moderno o attuale. Individuare le ragioni che sottostanno al grande successo che Dante e, in particolare, la Commedia incontrano oggi richiederebbe un lungo discorso. Perché un testo difficile e in molti punti incomprensibile anche a un lettore colto che non sia munito di apparati esegetici viene se non proprio letto, almeno continuamente recitato, e con soddisfazione degli uditori? Potrà sembrare paradossale, ma io credo che sia proprio la difficoltà del testo a spiegarne il successo attuale. Un testo non autosufficiente, che cioè non fornisce al lettore le informazioni necessarie per essere completamente capito, non è un oggetto estraneo alla nostra idea di letteratura. Anzi, ci è familiare. Da tempo, infatti, siamo abituati a considerare come portatrici di senso anche le parti di un libro che pure risultano oscure, a considerare cioè un testo letterario o teatrale o filmico come un mosaico che si offre in modo diverso alla nostra comprensione: a volte capiamo perfettamente, altre volte soltanto per intuizione, altre volte ancora non capiamo affatto. La Commedia funziona in quel modo, e non è casuale, allora, che uno dei libri fondativi della modernità come l’Ulisse di Joyce l’abbia tenuta presente come uno dei suoi modelli».
La sua chiave di lettura affascina sicuramente gli specialisti; sembra quasi voglia compensare i limiti di quella più «popolare» che ne fanno comici come Benigni.
«Sinceramente, non mi sono mai posto questo obiettivo. Riconosco a Benigni grandi meriti, non sottovaluto affatto ciò che egli fa per avvicinare a Dante e, con Dante, alla poesia un pubblico che altrimenti se ne sarebbe tenuto lontano. Io mi colloco su un altro piano, con la segreta speranza, tuttavia, di parlare a un pubblico un poco più ampio dei soli specialisti».
È stato scritto che a Pisa vi state riappropriando di Dante. È una sfida a Firenze? Pretendete un posto di diritto tra le città dantesche?
«Mi colpisce che lei parli di noi pisani, mi lasci dire che è un tratto molto toscano. È capitato che a Pisa, senza essersi accordati, alcuni studiosi abbiano cominciato a occuparsi di Dante: ciascuno ha seguito e segue un proprio percorso. Qualche nome: Gabriella Albanese, Lucia Battaglia Ricci, Umberto Carpi, Alberto Casadei, Marcello Ciccuto, Fabrizio Franceschini, Mirko Tavoni. Non è una scuola, non c’è un maestro, ma è vero che molte delle loro ricerche si caratterizzano per una particolare attenzione alla storia e alla biografia. Ebbene, nessuno di loro è pisano, pochissimi sono toscani. Voglio dire che l’università di Pisa non è Pisa. E quindi, per usare il noi, noi non sfidiamo nessuno e non rivendichiamo alcunché. L’Italia è già di per sé un paese provinciale, sarebbe il colmo se ci mettessimo a fare del campanilismo regionale anche nel settore della ricerca. Che Pisa, poi, occupi un posto fra le città dantesche non lo pretendiamo noi, ma più semplicemente lo dice la biografia di Dante».
C’è un dato inconfutabile: il vostro Dipartimento di italianistica sta promuovendo una serie di iniziative che escono dalle aule universitarie, per attirare all’ombra della Torre studiosi da tutto il mondo. Sono già definiti questi progetti?
«Sì, come Dipartimento stiamo promuovendo qualche iniziativa nel nome di Dante. È in via di definizione il progetto di una scuola estiva, aperta a tutti ma in particolare a studenti e studiosi stranieri, operante nel mese di luglio».
Torniamo alla «Divina Commedia». Un team peraltro sconosciuto di ricercatori vicino alle Nazioni Unite vuole che sia censurata e bandita dalle scuole perché conterrebbe terzine anti-islamiche e antisemite. Come risponde a questa provocazione su Dante razzista?
«Verrebbe istintivo dire che si tratta di una cretinata troppo grande perché valga la pena di occuparsene, se non fosse che quella cretinata è la manifestazione patologica di un problema reale con il quale dobbiamo fare i conti oggi e con il quale dovremo sempre più misurarci nel futuro. La riflessione sulla tolleranza e sul rispetto delle culture non può prescindere anche dalla riflessione sui pericoli insiti in una visione del tutto ideologica del problema. Nel mondo globalizzato il senso della storia e la capacità di relativizzare sono conquiste che corrono seri pericoli».
Nelle sue ricerche scientifiche, nell’insegnamento e nell’attività pubblicistica c’è stato tanto Petrarca, al punto da essere considerato in Italia il massimo esperto della lirica classica e del petrarchismo. Sente un po’ di nostalgia per il «padre» del «Canzoniere»?
«In realtà non l’ho mai abbandonato, così come, prima, non ignoravo Dante. Il mio primo lavoro a stampa, avevo poco più di vent’anni, era intitolato Presenze di Dante ‘comico’ nel Canzoniere di Petrarca; oggi, a sessantacinque anni, scrivo una vita di Dante nella quale il nome di Petrarca ritorna molte volte. Troppi fili legano i due padri fondatori per poterli considerare separatamente. Legati, pur nella profonda diversità: Dante fonda la letteratura come discorso sulla realtà, Petrarca fa della poesia lo scandaglio dell’interiorità. Ma l’uno e l’altro pongono al centro della loro scrittura l’io autobiografico. Non è dunque un caso che sia l’uno che l’altro siano fra i pochi classici sentiti ancora attuali».
Oltre che accademico di letteratura e critico, è anche scrittore di successo. Ha pubblicato diversi romanzi ed ha vinto anche un «Campiello». Sente ancora il richiamo della narrativa o è una passione un po’ assopita?
«Diciamo che sono in una fase di latenza. La tentazione c’è ancora, ma meno forte che in passato. Forse perché il quadro della narrativa di oggi non incoraggia. Mi è capitato di dire che la narrativa italiana di questi anni è una sorta di petrarchismo in prosa; io ho studiato la poesia petrarchista per molto tempo, e quindi è comprensibile che non arda dal desiderio di vestirmi di quei panni. Ma prima o poi ci riproverò: l’illusione di non essere un petrarchista è dura a morire».
A proposito di Premi Letterari: condivide il coro delle polemiche che hanno investito anche il «Viareggio» Questi eventi culturali hanno ancora una funzione?
Ho fatto parte della giuria del «Viareggio» ai tempi di Cesare Garboli, e poi ne sono stato estromesso. Da allora non ho più seguito le vicende del premio, e quindi non sono in grado di giudicare nel merito le polemiche che esso suscita. Quanto ai premi letterari, sappiamo tutti che sono enormemente cresciuti di numero e che, nello stesso tempo, hanno perso di importanza. Non scoprono nuovi talenti e, con poche eccezioni (Strega, Campiello), non influenzano il mercato. Potrebbero servire se li si usasse non per promuovere la scrittura, ma la lettura. È ciò che ho cercato di fare fondando, cinque anni fa, un piccolo premio di narrativa, il Premio ZoccaGiovani, riservato a scrittori al di sotto dei trentacinque anni d’età: l’intento, ripeto, non era di promuovere la scrittura giovanile, ma di allargare il cerchio dei lettori. I libri in concorso sono a disposizione del pubblico, che è chiamato a formulare un giudizio scritto sul libro letto: in questo modo, in un paese dell’Appennino sprovvisto di librerie, ogni anno circa cinquecento persone leggono almeno tre libri a testa.
La scrittura è sempre stata al centro dei suoi interessi, con una sorta di evoluzione: da quella accademica è passato alla saggistica. «La scrittura creativa commenta Marco Santagata è venuta più tardi, sia come sviluppo del lavoro scientifico che come compensazione personale». Il primo romanzo «Papà non era comunista» (1996, Premio Bellonci per l’inedito) è ambientato a Zocca, dove era facile intuirlo scorrendo la sua biografia è tra l’altro nato il rapporto di amicizia con il cantautore Vasco Rossi. Racconta la provincia emiliana nel dopoguerra: un mondo il cui segno più forte e distintivo sembra essere quello di una rissosa e allegra vitalità. Protagonista è una famiglia a metà borghese a metà contadina, che riassume in sé un po’ tutti gli umori, i sentimenti, i rancori, le contraddizioni di una società provinciale, in anni piuttosto cruciali. C’è la nonna («inventata») che è rimasta monarchica e fascista; una madre attenta alla posizione sociale della famiglia; un padre (soprattutto un padre) che la coerenza politica porterà a fare scelte spregiudicate e generose. E c’è il figlio che vive tutto questo periodo di tumultuose passioni da bambino, e che tutto guarda, appunto, con gli occhi avidi e incantati dell’infanzia. È il mondo dove è cresciuto anche il fratello Giulio, che dopo le esperienze con la sinistra cattolica modenese di Ermanno Gorrieri, è diventato uno dei più stretti collaboratori (Ministro per l’attuazione del Programma) di Romano Prodi.
Per Marco Santagata seguono altri romanzi di successo: «Il maestro dei santi pallidi» (2003, Premio Supercampiello), «L’amore in sé » (2006, Premio Riviera delle Palme-San Benedetto del Tronto e Premio Stresa), «Il salto degli Orlandi» (2007) e «Voglio una vita come la mia» (2008). E la chiamata nelle giurie dei più prestigiosi premi letterari. Negli ultimi quattro anni ha intensificato la scrittura scientifica, senza mettere da parte il suo stile accattivante; sia che parli di Petrarca o dell’universo di Dante, i coni su cui ormai ruota la sua ricerca e l’insegnamento.