Lettere in redazione
Il ’68 è ancora una questione aperta
Dovete sapere che mons. Bianchi, e questo era doveroso dirlo da parte vostra, fu l’unica vittima sacrifica in questa dolorosa circostanza e lo fu dalla ragion di stato di S.M.C.
Poi venne a Pescia, si dice per sua libera volontà.
Ma non finì qui: cominciò uno dei suoi periodi migliori in mezzo ad un popolo che lo amava, lo stimava e lo ascoltava. E noi ci sentiamo orgogliosi di averlo avuto «Padre e Pastore» per ben 17 anni. Perché di lui nemmeno una parola?
Forse abbiamo bisogno di una riflessione comunitaria dove mettere insieme forze culturali pluralistiche e sensibilità concrete per cogliere in quale maniera la missione può lavorare al servizio dello Spirito di Dio che opera nell’oggi per incarnare la potenza della Resurrezione.
Il passato continua ad interpellarci e ad invitarci a risposte coraggiose e nuove, riflesso di comunità vive che invertano «il processo di liofilizzazione della fede, per il quale la sostanza teologica del dire e dell’essere , portato a un grado basso di temperatura, diventa polvere stabilizzata ed incorruttibile. Ma una tonnellata di albicocche liofilizzate, incorruttibili, non possiede quello che ha una sola povera albicocca marcia: il seme germinatore di vita. Se tenessimo conto di questa fase si capirebbe una delle origini dalla quale viene la sterilità della nostra Chiesa attuale». Così ha scritto con acutezza qualche tempo fa don Paolo Giannoni in un suo piccolo saggio in replica a Sandro Magister proprio sugli argomenti sopra citati.
Queste lettere, che si aggiungono a quelle pubblicate sul n. 19 (Florit, La Pira e il caso «Isolotto»), sono segno dell’interesse suscitato dai nostri servizi (n. 17) su «Il ’68 dei cattolici», che prendevano le mosse da un recente libro di Roberto Beretta e che si soffermavano in modo particolare sul «caso Isolotto» che ebbe risonanza nazionale. Ora questi ulteriori interventi consentono di continuare e arricchire una riflessione sulla vicenda in sé e sulle persone che la vissero in posizioni di responsabilità.
È vero, caro mons. Biagini, non abbiamo ricordato il Vescovo Giovanni Bianchi, che all’epoca era ausiliare e vicario generale di Firenze. E me ne scuso. L’ho conosciuto bene e ho collaborato per lunghi anni con lui. Di quei fatti fu indubbiamente un protagonista e ne soffrì molto. So che tenne un diario sui contatti tra Isolotto e Curia fiorentina con annotazioni che sarebbe opportuno conoscere.
E la nostra collaborazione continuò anche quando fu nominato Vescovo di Pescia, perché Pescia fu tra le prime Diocesi che aderirono al progetto di Toscanaoggi.
Non fu però né si considerò «vittima delle ragioni di stato di Santa Madre Chiesa». Anzi desiderò lasciare Firenze perché capiva bene che il nuovo Arcivescovo, il card. Benelli, proprio per segnare una discontinuità, voleva collaboratori nuovi. Inoltre la Diocesi di Pescia per le sue stesse dimensioni gli consenitiva con preti e laici quel rapporto diretto in cui eccelleva.
Il ’68 è, comunque, ancora dopo quarant’anni un nervo scoperto in ambito ecclesiale, non tanto per quei fatti, ormai necessariamente consegnati al passato, ma perché, come lei ben dice, caro don Lanforti, «pone a tutt’oggi una questione centrale e cioè il dialogo nella Chiesa e la reale partecipazione dei laici e del clero nelle scelte prioritarie per l’evangelizzazione». È questa, a mio parere, una questione aperta, che esige una riflessione comunitaria che coinvolge «forze culturali pluralistiche e sensibilità concreta». E va affrontata sotto la guida del Vescovo senza schemi ideologici-politici, alla luce del Vangelo del Concilio e del successivo Magistero. E in quest’ottica sarebbe utile anche ripensare e vivificare i vari organismi diocesani di partecipazione che sono o dovrebbero essere luoghi privilegiati per il dialogo e il confronto intraecclesiale.