Opinioni & Commenti

Il ’68 dei cattolici, un tempo d’impegno e d’occasioni perdute

di Alberto Migone

Roberto Beretta col suo recente libro Cantavamo Dio è morto – Il ’68 dei cattolici ci propone una rilettura-riflessione sugli anni della contestazione. Non è un tema nuovo per lui che già nel 1998 con Il lungo autunno aveva analizzato il fenomeno sempre in riferimento al mondo cattolico. Ora, attraverso un’ampia messe di documenti e di testimonianze, ricostruisce e approfondisce questo periodo della storia italiana, dove ha un posto non secondario la Toscana anche se – a mio giudizio – almeno per le vicende fiorentine non è ancora il tempo dei giudizi definitivi perché molti testimoni autorevoli– che con ogni probabilità sono anche depositari di importanti documenti – preferiscono il silenzio. Quella che Beretta ci offre è comunque una ricostruzione seria che merita attenzione perché coinvolge e fa pensare soprattutto chi, come me, quegli avvenimenti li ha vissuti appieno e non solo per motivi anagrafici.

Impegnato su due fronti particolarmente caldi, nella scuola come insegnante in un Liceo statale e nella Chiesa come presidente diocesano dell’Azione cattolica di Firenze, ripenso a quegli anni senza mitizzazioni né rimpianti, ma anche con serenità, perché personalmente non porto cicatrici.

Li ricordo come tempo di impegno: per capire, per aggiornarsi, per saper valutare e camminare nel solco luminoso del Concilio. Ma anche come tempo di occasioni perdute perché il desiderio vero di autenticità e di rinnovamento non seppe trovare la capacità di incanalarsi in un’azione costruttiva. Troppo spesso allora sul dialogo – che ha dato poi buoni risultati – prevalse la violenza teoricamente esaltata, lucidante esercitata e non sufficientemente contrastata da chi poteva e doveva farlo. Emerge qui la responsabilità dei «cattivi maestri», ma non minore quella dei maestri vigliacchi che non vollero dire la parola che corregge e illumina nel timore di essere spazzati via, mentre soprattutto i giovani, e penso in particolare alla scuola, si aspettavano anche atti di coraggio educativo.

Nella comunità ecclesiale prevalse, almeno a tratti, un disprezzo diffuso e reciproco: sentimento il più lontano dal Vangelo e che determina rotture spesso senza ritorno. Sembrava che si potesse con facilità amare tutti, meno i fratelli di fede che manifestavano opinioni diverse, spesso su materie che oggi sono considerate largamente opinabili. Le sofferenze furono vere e le ferite così profonde da fermare il cammino di tante comunità.

Di quegli anni, comunque, non restano nel mio ricordo i «feritori», ma coloro – preti e laici – che si impegnarono per costruire davvero il nuovo, per far comunione e che spesso pagarono su ambedue i fronti. Con alcuni ho lavorato fianco a fianco – e penso qui a monsignor Giuliano Agresti –  e li ricordo con affetto, perché tanto mi hanno insegnato anche per l’oggi. Il ’68, almeno nella mia esperienza, non fu certo «il mito intoccabile degli anni formidabili», ma piuttosto un tempo di Dio, in cui grano e zizzania più intensamente si intrecciano, tempo in cui anche per i cristiani orientarsi è fatica.