Italia
Ici e Chiesa, nessun buco nelle casse dei Comuni
La Chiesa, l’Ici e il ritornello dell’assessore
Se per le strade di Firenze ci sono le buche, se mancano i soldi per gli anziani o per gli asili nido, la colpa è della Chiesa fiorentina. Fu più o meno questo il messaggio lanciato dall’assessore al bilancio di Firenze, Tea Albini, quando la Finanziaria 2006 cercò di chiarire che l’esenzione Ici per alcune precise attività svolte da enti noprofit scattava a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse, come del resto era stato fino ad allora. Invitò addirittura la Diocesi di Firenze a restituire quei soldi ingiustamente sottratti al Comune. Le fu spiegato pubblicamente che niente cambiava per le proprietà della Chiesa: chi pagava prima avrebbe continuato a farlo e viceversa, senza variazioni per il bilancio comunale. Poi cambiò governo e la nuova maggioranza si affrettò a varare una nuova «interpretazione» riservando l’esenzione alle attività «che non abbiano esclusivamente natura commerciale». E, a dimostrazione di quanto da sempre sostenuto dalla Chiesa fiorentina, anche questa volta niente cambiò. Eppure oggi l’assessore torna a ripetere che le casse comunali avrebbero perso 600 mila euro.
Ma invece di ripetere lo stesso ritornello, non sarebbe meglio che l’assessore tentasse di spiegare quali enti ecclesiastici hanno smesso di pagare l’Ici nel 2006, quali azioni ha intrapreso per recuperare le somme eventualmente evase e a quanto ammontano le esenzioni per tutti gli enti noprofit?
C.T.
Nessun buco nelle casse comunali
A fine agosto la Commissione europea ha chiesto informazioni al governo italiano su «alcuni vantaggi fiscali» concessi alla Chiesa, senza peraltro aprire un’inchiesta formale. Tanto è bastato per far ripartire la polemica sui presunti «privilegi» alla Chiesa. Una campagna nella quale si è distinto il quotidiano «Repubblica» che in un’«inchiesta», pubblicata lo scorso 29 settembre, ha fatto un gran calderone tra esenzione Ici, riduzione Ires, taglio all’Irap per gli stipendi sui sacerdoti, Concordato, «otto per mille», sedi extraterritoriali della Santa Sede, esenzione Irpef per i dipendenti vaticani… Facendo passare l’idea che tutto dipenda dai «regali» della Finanziaria 2006 di Berlusconi e che certi regimi fiscali agevolati siano un’esclusiva della Chiesa cattolica. Ne parliamo con Marco Seracini, noto dottore commercialista fiorentino, esperto di questi temi per i quali scrive regolarmente su «Terzo settore», il mensile del «Sole24ore».
Dottor Seracini, il Comune di Firenze sostiene di rimetterci 600 mila euro all’anno, a causa dell’esenzione Ici agli enti ecclesiastici, introdotta da Berlusconi.
«Non direi proprio che per i Comuni ci sia un lucro cessante dal 2006, perché le esenzioni Ici risalgono al 1992, alla legge istitutiva del tributo. Gli interventi legislativi del 2005 e del 2006 sono mere norme interpretative. Quindi nulla è cambiato. Forse il Comune di Firenze intende dire che, se la legge fosse diversa, potrebbe incassare più Ici. Ma questo vale per qualsiasi tributo locale».
Per la sua esperienza di commercialista, ci sono enti ecclesiastici che fino al 2006 pagavano l’Ici e da allora hanno smesso di pagare?
«Assolutamente no. E anche prima del 2006 non mi risulta che ci fossero particolari contenziosi tra Comune di Firenze ed enti ecclesiastici per recupero di presunta evasione Ici».
Facciamo un passo indietro. Fino alla sentenza della Cassazione del 2004 cosa succedeva?
«Nessun ente non profit, compresi quelli ecclesiastici, pagava l’Ici sulle strutture dove svolgeva una delle attività previste (art. 7, D.Lgs. n. 504 del 1992), cioè: assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive. Nessuno pagava perché i due requisiti, quello soggettivo di essere un ente non commerciale e quello oggettivo di svolgere realmente una di quelle attività non ponevano dubbi interpretativi».
Poi però era arrivato il requisito della diretta gestione…
«Quasi tutti i Comuni introdussero l’ulteriore requisito, previsto dal Dl 446/1997, dell’uso diretto dell’immobile da parte del proprietario. Così, se l’ente nonprofit gestiva direttamente una scuola o una casa di riposo, non pagava l’Ici. Se lo dava in uso, in comodato o in affitto ad un altro soggetto sia nonprofit che commerciale su quello pagava l’Ici».
Infine nel 2004 la prima sentenza della Cassazione che dava torto ad un Istituto di suore contro il Comune dell’Aquila…
«Quella sentenza introdusse un ulteriore requisito, non previsto dalla legge, per poter godere dell’esenzione Ici: l’assenza di attività commerciale. Anzi, testualmente stabiliva che, se un’attività era commerciale, non poteva nemmeno essere considerata ricettiva, assistenziale o sanitaria e quindi permettere l’esenzione Ici. Secondo la normativa e la giurisprudenza tributaria, basta una specifica organizzazione perché una di queste attività sia commerciale. Ora il pretendere che, per poter godere dell’esenzione Ici, l’attività socialmente rilevante (ad esempio quella sanitaria o socio-assistenziale) debba essere svolta senza personale, strutture, mezzi ed organizzazione vuol dire semplicemente rendere impossibile l’esenzione».
Quali effetti pratici comportava questa sentenza?
«Si verificava una situazione di grande confusione: la legge del 1992 diceva una cosa, e l’ultima sentenza della Cassazione (perché prima ce ne erano state altre di segno opposto) ne diceva un’altra, lasciando tutto alla discrezionalità dei giudici e dei Comuni».
Così arrivò la «norma interpretativa» della Finanziaria 2006 (dl 203/05). Cosa diceva?
«Che il famoso art. 7, comma 1, lettera c, si intende applicabile quindi era una norma interpretativa e non innovativa a quelle attività previste a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse. Chiariva cioè soltanto che il discorso del commerciale o non commerciale non c’entrava nulla, riconfermando il chiaro tenore letterale della legge e ristabilendo la situazione ante 2004».
Perché, allora, il governo Prodi, l’anno dopo, è intervenuto di nuovo, con il decreto Bersani?
«Non certo perché si sentiva il bisogno di chiarire una situazione già chiara. Probabilmente per una scelta politica, il che è del tutto legittimo. Quello che lascia perplessi è lo strumento usato. Se la volontà politica del legislatore è quella di dire a tutta una serie di soggetti o di attività svolte in un certo modo: Non vogliamo più riconoscervi l’esenzione, lo deve fare cambiando la legge o abrogandola, non con un’altra norma pseudo-interpretativa che stravolge il senso di una norma primaria. Per di più è stata introdotta una definizione ininterpretabile. Perché per il nostro ordinamento un’attività o è commerciale o non lo è. Questo creerà solo nuovo contenzioso di cui non si sentiva certo il bisogno».
Soprattutto per gli enti ecclesiastici…
«La particolarità degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti è che sono enti fiscalmente non commerciali. Questo per legge, per norma concordataria. Ma ancora prima per l’art. 7 della Costituzione. E non possono mai perdere questa qualifica. Mentre tutti gli altri enti non profit la perdono automaticamente se svolgono attività esclusivamente commerciale».
Ma allora un ente ecclesiastico può fare anche solo commercio?
«Qui si entra nel diritto canonico. Se un ente di religione e di culto non svolgesse più nessun tipo di attività di culto o di religione, l’autorità ecclesiastica preposta dovrebbe togliergli il riconoscimento canonico. Solo a quel punto anche per lo Stato perderebbe la qualifica di ente ecclesiastico».
Facciamo qualche esempio. Cosa è esente dall’Ici e cosa no?
«Se all’interno di un monastero, dove si svolge anche attività religiosa, viene aperto un albergo, gestito direttamente dall’ente ecclesiastico, questo non paga l’Ici. Come del resto non paga l’Ici per i campi da tennis o per quello da calcetto l’ente non profit laico che ne sia proprietario e li gestisca direttamente. Invece, se una parrocchia proprietaria di impianti sportivi li dà in gestione ad un altro soggetto, sia anche non profit, o al circolo Acli o Anspi, allora paga l’Ici».
Ma l’esenzione scatta solo per le parti adibite a quelle attività o per tutto l’immobile?
«Solo per quelle riconducibili chiaramente ad una delle attività esenti. Ho l’esperienza di una Rsa, che ho difeso professionalmente, dove il giudice tributario ha mandato la Guardia di Finanza con il metro e le piantine a misurare stanza per stanza e dire questo sì, questo no. I locali della Rsa per le fisioterapie sono esenti, gli uffici amministrativi pagano l’Ici».
Di quali altre agevolazioni fiscali godono gli enti ecclesiastici?
«Ad esempio l’Ires (Imposta sul reddito delle società), che viene applicata al 50% dell’aliquota ordinaria (che oggi è al 33%, quindi pagano il 16,5%). Ma anche questo non riguarda solo gli enti ecclesiastici. Ne godono tutti i soggetti che svolgono attività di beneficienza e istruzione e anche, ad esempio molte Fondazioni culturali. Temo che questo sarà il prossimo fronte. Alcune forze politiche hanno già cominciato a dire: Perché la Chiesa deve pagare l’Ires al 50%? E c’è anche una risoluzione aberrante dell’Agenzia delle Entrate del 2005, che introduce anche qui il requisito dell’attività non commerciale».
Secondo dati del ministero dell’Economia, gli enti ecclesiastici esenti dall’Ici sono solo il 4% del totale degli esenti. A parte scuole, Asl, ospedali, sedi di enti locali, chi gode di questo favore?
«Come dicevamo, tutto il non profit che svolga direttamente quelle attività esenti, come la Croce Rossa o le associazioni sportive. Tra questi anche molte Fondazioni, comprese quelle bancarie. Non bisogna dimenticare poi che la legge prevede anche altre facilitazioni. I palazzi storici, ad esempio, da chiunque posseduti, godono di una forte riduzione dell’Ici».
Cosa ne pensa del ricorso all’Unione europea, per turbativa della concorrenza?
«Per i luoghi di culto, non si capisce quale concorrenza economica venga alterata, dato che l’esenzione vale per tutte le forme di culto riconosciute dallo Stato. Per il resto, se c’è turbativa del mercato, è perché ci sono agevolazioni per una categoria di enti (quelli fiscalmente non commerciali) ben più ampia di quegli ecclesiastici, che sono solo una parte. In altri termini, non si capisce perché l’esenzione Ici per il non profit laico vada bene e per quello cattolico debba dare scandalo. Lo stesso dicasi per la riduzione dell’Ires al 50%, di cui la grande maggioranza dei beneficiari sono enti diversi da quelli ecclesiastici».
La scheda
Chi non paga l’Ici
MONS. BAGNASCO: «RICONOSCERE L’AZIONE DELLA CHIESA»
DALLA TORRE (LUMSA): NESSUN PRIVILEGIO E NON TOCCA LA CONCORRENZA