Opinioni & Commenti

Ibrahim, il frate dell’assedio

di Andrea FagioliIncontriamo padre Ibrahim Faltas in un luogo un po’ insolito: ai tavolini di un caffè di Piazza della Signoria a Firenze. È qui per un convegno sulla cooperazione promosso dalla Regione Toscana. C’è infatti anche Massimo Toschi, che in Regione si occupa appunto di pace, cooperazione e diritti umani. È una bella chiacchierata quella che facciamo con il francescano di origine egiziana (nato ad Alessandria d’Egitto nel 1964) salito suo malgrado alla ribalta del mondo intero per l’assedio alla Basilica della Natività a Betlemme. E l’argomento principale non può che essere il ricordo di quei lunghi giorni (sia pure qui ridotto all’essenzialità di un’intervista). L’ultima volta che ci siamo visti era proprio all’interno del convento di Betlemme, nel maggio scorso, a pochi giorni dalla fine dell’assedio alla Basilica, ma non alla città. Fu grazie alla sua mediazione, anche in quella circostanza, che gli israeliani fecero uno strappo al coprifuoco consentendo l’accesso a una piccola delegazione toscana.Allora, padre Ibrahim, come va? «Come va? Diciamo bene, anche se la situazione…».Chiedo scusa. «Come va?» è un modo di dire, un saluto…«Non c’è problema. Eppoi da noi, a Betlemme, in questo momento, le cose vanno meglio che altrove».

Davvero?

«Sì, non c’è più il coprifuco, a differenza di altre città palestinesi dove invece va avanti da oltre cento giorni».Nei limiti del possibile, la vita è dunque ripresa?«Dal 26 agosto abbiamo anche riaperto la scuola. Ma il vero problema, oltre al coprifuoco che potrebbe tornare da un momento all’altro, è il lavoro. Gli artigiani di Betlemme non lavorano quasi più da due anni. Il poco che hanno fatto, lo hanno fatto grazie alle iniziative che avete preso voi in Toscana tra diocesi, enti locali, associazioni, organizzazioni commerciali… Anzi, approfitto dell’occasione per lanciare la proposta di un’ulteriore testimonianza fattiva di solidarietà: un pellegrinaggio dalla Toscana in Terra Santa a fine anno, dal 30 dicembre».Nel maggio scorso, a Betlemme, ci disse che i 39 giorni dell’assedio alla Basilica della Natività «rimarranno nella storia e rimarranno per sempre dentro di noi perché non è possibile dimenticare la sofferenza, i morti, i feriti…».

Ha cambiato idea?

«Assolutamente no. È stata una vicenda che mi ha segnato per sempre».

Uno dei momenti più difficili, almeno sul piano personale, è stato quando un cecchino israeliano le ha sparato.

«Sì, era il 6 aprile, la mattina alle 10 e mezzo, avevo appena aperto la finestra della mia stanza per dare uno sguardo alla nostra scuola, che è proprio sulla strada sotto al convento. Il proiettile mi ha sfiorato, ho sentito il soffio sulla faccia».

Si è chiesto perché le hanno sparato, visto che era l’unico con cui anche gli israeliani potevano comunicare?

«Non lo so. Forse non mi avevano riconosciuto o se mi avevano riconosciuto, lo hanno fatto per farmi paura».

Tra tanti momenti difficili, ce n’è stato uno positivo?

«Sì, quando mi ha telefonato il Papa».

Giovanni Paolo II in persona?

«Sì, sul cellulare. Erano trascorsi alcuni giorni veramente difficili. C’erano state incomprensioni anche tra noi frati e con i greco-ortodossi. Ero scoraggiato, avevo anche spento il telefono. Poi, una mattina, appena riacceso, squilla e sento la voce del Papa».

E cosa le ha detto?

«Mi ha ringraziato e mi ha incoraggiato: “Coraggio – ha ripetuto più volte –, coraggio. Prego per voi ventiquattro ore al giorno”. A quel punto gli ho ribadito quello di cui eravamo convinti: non avremmo mai abbandonato quel Luogo santo che da secoli è affidato alla nostra custodia».

Una curiosità: come facevate a ricaricare i cellulari se gli israeliani vi avevano tagliato l’elettricità?

«In uno stanzino dimenticato nella parte del convento dei greco-ortodossi era rimasta la luce. Se ne accorse per caso un giovane palestinese che era andato in giro a cercare qualcosa da mangiare. Non si sa come, ma gli israeliani non riuscirono a trovare dove fosse allacciata la luce di quella stanza, così come non sappiamo da dove venisse l’acqua di un rubinetto che ha continuato a buttare per tutti i 39 giorni».

A proposito di assedi, cosa pensa di quello ad Arafat?

«Penso che gli israeliani abbiano sbagliato strategia. Arafat era in declino, ma con l’assedio la sua immagine esce rafforzata. Negli ultimi tempi non era mai stato così popolare tra il suo popolo e di fronte all’opinione pubblica intenazionale».