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I ragazzi delle periferie: li vediamo ora, solo perché ci fanno paura

di Franco CardiniOrmai la cosa sta andando avanti da troppo tempo. Nemmeno il centro di Parigi è, o comunque si sente più sicuro, dopo le banlieues in fiamme. Brucia di notte anche buona parte del resto delle periferie francesi. Il contagio dei tumulti rischia di estendersi: è già la volta del Belgio e della Germania. Ci chiediamo se arriverà la volta di altri paesi: fra cui l’Italia.

I problemi sociali delle periferie, da noi, non sono proprio gli stessi della Francia o della Germania, ma certo molte somiglianze esistono; e poi c’è il meccanismo dell’imitazione. Infine, un dato ancestrale: i ragazzi amano distruggere, è nella loro natura, è una febbre giovanile che in sé non è poi nemmeno un sintomo negativo. Fa parte della crescita, delle tempeste ormonali, della voglia di sentirsi vivi, di sentirsi forti. Il guaio è quando questo istinto si scontra drammaticamente con la frustrazione, con la miseria, con l’ignoranza, con la povertà d’orizzonti tanto spirituali quanto materiali.

La repressione è necessaria. Non si può consentire a nessuno d’incendiare e di sfondare; non ci si può permettere che si radichi, tra chi sceglie comportamenti criminali, il senso dell’impunità e dunque dell’onnipotenza. La società civile ha il diritto e il dovere di tutelare se stessa. Ma, al tempo stesso, la repressione non è sufficiente. Anzi, se si presenta e si afferma da sola, senza essere accompagnata da un contesto che segnali la volontà per il futuro di prevenire, può addirittura essere un rimedio peggiore del male. E prevenire significa non solo attrezzarsi per render impossibili violenze future: significa comprenderne le radici e i motivi, rimuoverne le cause. Non significa affatto giustificare.

Ma guardiamoli, ora, questi ragazzi francesi e non solo. Di rado immigrati da poco, più spesso figli o nipoti di gente venuta di solito dall’Africa settentrionale, maghrebini o anche francesi che vivevano magari bene in Oltremare e che il processo d’indipendenza delle ex colonie ha costretto a tornar nella madrepatria, su un territorio metropolitano nel quale li aspettavano promesse mai o molto poco mantenute.

I ragazzi fermati si somigliano tutti fra loro: la maggior parte è afasica, risponde a chi le fa domande con parole smozzicate, mezze frasi, qualche insulto osceno. Ma qualcuno va oltre: dice cose più dure e più precise. Bisogna ascoltarli. Eccoli là, con i loro abiti da proletari urbani, le T-shirts con le scritte pubblicitarie, le enormi scarpe di gomma, i telefonini. Strani poveri, che ostentano sovente costosissimi accessori. Ragazzi che non vivono più nemmeno in quartieri-dormitorio, ch’erano tali quando la gente al mattino andava a lavorare. Ora stazionano senza far niente in luridi ghetti, si addensano ai miserabili angoli di strade fatiscenti, si scambiano sms, sbevazzano, si spintonano, spacciano o comprano droga. Vivono fra desolate pareti piena di murales, in posti dove non c’è che qualche centro commerciale: non un campo sportivo, cattive anzi pessime scuole, non un caffè o un cinema davvero degni di questo nome (non parliamo di teatri o di biblioteche). Non hanno lavoro e non lo cercano neppure, perché la disoccupazione è a sua volta una droga.

Questi ragazzi non hanno ancora cominciato a vivere e si sentono già dei vinti. I loro obiettivi sarebbero quelli comuni anche agli altri: i soldi, il lusso, i consumi facili. La società cosiddetta «del benessere» ha fornito loro questi modelli, ma non offre loro la possibilità di raggiungerli. E allora ecco la solitudine, la rabbia cupa e cieca, la voglia di distruggere. Ma una rabbia che ha una radice generazionale e sociale precisa.

A Parigi ne ho sentito uno, qualche giorno fa, che parlava in televisione. Preso con le mani nel sacco, la lattina di benzina e l’accendino fra le mani. Ma lui urlava le sue ragioni: «Criminali e teppisti noialtri, che incendiamo e sfondiamo: certo. A noi, prigione e bastonate. Ma a quelli che hanno trasferito le industrie nelle quali avremmo potuto lavorare, a quelli che le hanno installate in Romania o in Polonia dove il lavoro costa meno, a quelli che sfruttano la gente dell’est che deve accontentarsi di salari bassi e che scippa a noi il lavoro, che ci toglie la speranza del domani, la possibilità di farci una casa e un avvenire, a quelli magari gli date la Legion d’Onore».

Forse quel ragazzo esagerava: però metteva il dito su una piaga vera. Bisogna pensarci. Questi ragazzi li vediamo solo ora, perché ci fanno paura. Erano lì da molto, da troppo tempo. E, finché tacevano, rubacchiando e spacciando nell’ombra, nessuno s’occupava di loro. Tutto ci andava bene così. Che ci stiano davvero illuminando, in fondo, i falò delle banlieues?