Opinioni & Commenti
I punti fermi per una vera cultura della pace
Tutti interrogativi seri che, se si esclude la convinzione banale che le guerre sono tutte uguali, potrebbero suggerire riflessioni doverose, se la missione Onu, con la nostra partecipazione è stata definita «doverosa». Personalmente sono tra coloro che la ritengono tale. Pertanto:
1 – Il dovere chiama la responsabilità. Una cultura della pace che la voglia esprimere in pienezza deve saper denunciare, dare voce a chi non ha voce, fermare i carriarmati, ma, contemporaneamente, deve saper governare, neutralizzare il prepotente, aiutare chi vuole spengere i focolai di guerra. In termini politici: non può essere unicamente cultura di opposizione. In termini teologici: non può fondarsi soltanto sull’idea profetica (voce inascoltata che grida nel deserto) o regale (crocifissa, dunque martire), deve connotarsi anche alla maniera sacerdotale (agire e unire un «già» e un «non ancora», escludendo la perfezione del gesto collettivo e dunque l’utopia).
2 – L’uso della forza è preservato dal diventare violenza quanto più dentro ad un percorso di legalità. Il gioco politico di fitta consultazione ha permesso un vasto coinvolgimento e un’assunzione di responsabilità estesa e condivisa. Percorso inevitabile nell’epoca in cui, al di là di definizioni etico-politiche («polizia internazionale», «ingerenza umanitaria», ecc.) non esiste vero diritto internazionale che consenta azioni che superino il concetto di «sovranità» dei singoli stati. Basti pensare alla diversità dei percorsi politico-militari realizzati durante tre crisi: Kosovo, Afghanistan, Iraq e alle diverse conseguenze.
3 – Il popolo della pace è in crisi. Chi si è astenuto dalla marcia di Assisi lo ha evidenziato. Ma chi vi ha partecipato ha sentito la crisi passargli dentro. L’unilateralismo e i «doppi standard» sono ancora presenti ma ormai insopportabili.