Cultura & Società
I premi letterari? Sono un po’ come la vita
di Lorella Pellis
Non è una novità. Sui premi si è sempre fatta polemica e in questo senso il recente Viareggio-Repaci ha rappresentato un’occasione ghiotta. Ma, tranquilli, niente di nuovo sotto il sole». Sdrammatizza Alessandro Zaccuri, scrittore e giornalista del quotidiano «Avvenire», dall’autunno del 2005 autore e conduttore de «Il Grande Talk» su Sat2000, reduce dal prestigioso premio Campiello dove il suo romanzo «Il signor figlio» (Mondadori) ha ottenuto il quarto posto. Ma anche il Campiello ha riservato qualche sorpresa ribaltando le previsioni: due donne hanno scalato la classifica, una, Mariolina Venezia, ha trionfato, il favorito Carlo Fruttero è finito ultimo.
Alessandro, tu che hai sempre seguito per lavoro i premi letterari, i festival di letteratura, le fiere e che al Campiello ti sei trovato dall’altra parte della barricata, ci dici un po’ cosa succede?
«Se uno ripercorre le edizioni del Campiello, anche solo nell’ultimo decennio ci sono stati vincitori a sorpresa. Per quanto mi riguarda la mia esperienza è stata gradevole. In questi due mesi abbondanti che ho vissuto sulla carovana del premio in giro per l’Italia ho trovato un clima di grande serenità e molto signorile, direi. Il Campiello è stato il primo premio che ha introdotto il doppio sbarramento: una prima selezione fatta dai critici che sforna già 5 vincitori ex aequo e poi il super vincitore che viene scelto dai lettori. Alla fine è anche un giudizio equilibrato quello che esce dal Campiello. E poi ho deciso di vivere questa esperienza sapendo che è un gioco, ha le sue regole, qualcuno vince e gli altri perdono. Del resto chi va in cinquina è già tutelato dalla giuria dei critici, poi rimane il responso del pubblico: 300 giurati di varia estrazione, età, profilo sociale, che cambiano ogni anno. Il Campiello per certi aspetti è proprio l’opposto del Viareggio».
In che senso?
«Mi pare una buona idea. Il problema secondo me è che sono sempre più rare le figure alla Repaci, alla Garboli, alla Siciliano, è un genere di intellettuale che si sta estinguendo quello che ha l’autorevolezza che gli viene dal ruolo di intellettuale ma anche una certa capacità di mediazione che tutte queste persone in modo diverso hanno avuto. Per certi aspetti la presidente del Viareggio Rosanna Bettarini si è trovata in mano una macchina molto difficile da governare perché è completamente cambiata la società letteraria da quando è stato fatto quel regolamento a oggi. Quello che penso di aver capito del Viareggio è che si è passati da una cultura della mediazione, dove Enzo Siciliano è sempre stato maestro, ad una presidente che, per carattere e per circostanze, ha preferito comportarsi come un giudice monocratico. E questo ha infastidito la giuria. Credo che non ci sia stato il tempo per costruire un clima di mediazione in un premio che invece, sulla mediazione era costruito».
Come vedi il futuro del Viareggio?
«Oggi come oggi sarebbe auspicabile andare verso una gestione più collegiale anche se non credo che il Viareggio arriverà mai ad avere una giuria popolare perché la missione di questo premio è sempre stata quella di segnalare anche libri di impegno. In realtà il problema dei premi letterari è che sono legati fortemente alla società civile e alla società letteraria che esprimono. Nella nostra società l’elemento competitivo è diventato addirittura assillante. La società letteraria è diventata molto più complessa e l’idea di fare dei libri che incontrino quasi in maniera preordinata il gusto del pubblico è ormai accettata anche se è una cosa che fino a qualche anno fa in un premio letterario nessuno avrebbe detto».
Come mai anche per nell’ambito dei premi letterari si scatenano dinamiche di invidie, gelosie, simpatie ecc.?
«Siccome la letteratura in definitiva si occupa dell’umanità, io credo che non sia strano che i premi letterari, che si occupano di letteratura, siano a loro volta in qualche modo sottoposti ad alcuni aspetti dell’umanità. Non ci si deve stupire se simpatie, antipatie, problemi di carattere entrano anche nelle giurie dei premi e provocano baruffe perché è la letteratura che si occupa di questo, dei sentimenti, dei modi di pensare di ciascuno».
Dopo il Viareggio, l’altro premio famoso in Toscana è il Bancarella. Qual è il suo stato di salute?
«Forse è un premio che si potrebbe un po’ rivitalizzare. Il paradosso del Bancarella, premio dei librai, è che oggi ci sono tanti strumenti di rilevazione precisi su quanto vendono i libri per cui, come dire, alla fine il Bancarella si fa tutte le settimane. Forse andrebbe spiegato un po’ meglio lo spirito del Bancarella che con il moltiplicarsi dei premi si è un po’ offuscato perché io credo che al di là di dire qual è il libro che ha venduto di più perché quello si vede forse bisognerebbe tornare a sottolineare che la funzione del Bancarella è di dire il libro che ha dato più soddisfazione ai librai, il libro che li ha sorpresi, che ha permesso loro di avere un dialogo con i lettori. La funzione del Bancarella diventa importante nel momento in cui i librai soffrono la concorrenza dei megastore per esempio, e a quel punto il Bancarella diventa il premio che torna ad umanizzare il rapporto lettore-libraio. In questo senso penso che il premio abbia bisogno di un ripensamento e di un rilancio anche sul piano dell’immagine».