Numeri e storie che si intrecciano, a dipingere un quadro dove le tinte scure lasciano spazio a qualche barlume di speranza. È uscito nei giorni scorsi il Rapporto-povertà 2011, stilato dall’Osservatorio delle povertà della Caritas di Pisa e pubblicato con il titolo: «Sconfitti?». Sconfitti dalla vita – si sa – sono i poveri. Ma – come si legge nelle prime pagine del Rapporto – riflettendo sulle storie di quanti si sono rivolti negli anni ai Centri di ascolto «ci viene il dubbio che gli sconfitti non siano soltanto loro, ma anche noi, espressione di una società che non riesce a contrastare efficacemente la povertà». Nel 2010 nei quattro sportelli pisani sono state incontrate per colloqui approfonditi 972 persone, un dato confrontabile con quello dell’anno precedente. 677 sono straniere, ma gli italiani registrano un leggero aumento rispetto al 2009. Fra gli extracomunitari spiccano le donne ucraine e macedoni. Sono invece pienamente comunitari gli uomini romeni che costituiscono il 21% dell’«utenza» dei Centri di ascolto; dietro di loro i marocchini (16%) e i tunisini (circa il 9%).Dire che nel 2010 la «rete» Caritas ha erogato 22mila pasti, quasi 3mila pacchi spesa e 125 buoni doccia forse serve a poco se si vuole capire davvero la situazione delle povertà in diocesi. Ma anche fare un ritratto-tipo di chi si rivolge a un Centro di ascolto non è cosa semplicissima. Gli stranieri sono in maggioranza donne (il 55%) mentre gli italiani sono soprattutto uomini (58%). L’età media oscilla fra i 43 e i 44 anni, e già su questo dato c’è una differenza marcata fra italiani e stranieri: sì, perché l’immigrato che va al Centro d’ascolto ha meno di trent’anni. L’italiano ha in media dieci anni di più. Non solo: più della metà degli stranieri è coniugata, mentre il 40% degli italiani in stato di necessità esce da un divorzio o da una separazione. E se fino agli anni passati erano soprattutto donne separate a ricorrere alla Caritas, il dato si è oggi invertito a scapito degli uomini. In quale rapporto stia il divorzio con l’impoverimento è difficile dirlo; le storie che passano nei Centri di ascolto sono tutte diverse e gli operatori di sicuro le conoscono bene: i 58 «casi» di questo tipo – età media oltre i 50 anni – hanno usufruito in media di cinque colloqui a testa. Va da se che il problema principale – degli italiani divorziati come degli altri – è la mancanza di lavoro. A questo si associano condizioni abitative critiche: dei 58 italiani appena sei hanno un alloggio popolare, mentre uno solo ha una casa di proprietà.Nove usufruiscono del dormitorio, otto hanno un’«abitazione impropria» – nel gergo tecnico sono tali tutti quei rifugi malsani e pericolanti, difficili da definire «casa» – e sette risultano in pratica senza tetto. Per i restanti ci sono amici, familiari, strutture di vario genere. Scorrendo le pagine del Rapporto, è inevitabile che qualche categoria salti agli occhi più di altre. Oltre agli italiani divorziati – per esempio – a «meritare» un capitolo a parte sono state le donne straniere che vivono in baracca. Proprio così: in baracca, sebbene si trovino in Italia da molti anni. Sono in tutto 46 quelle conosciute alla Caritas fino al 2010; provengono esclusivamente dall’Europa dell’est, alcune sono di etnia Rom e sono tutte giovani (età media 33 anni). Quattro di loro sono arrivate nel corso del 2010, le altre risiedono nel nostro Paese anche da più di un decennio. Soprattutto più dei due terzi di loro dichiara di vivere con due o più figli i quali – data la giovane età delle madri – saranno al massimo adolescenti. Dietro agli «utenti», le persone Ancor più dei numeri, snocciolati anno per anno, valgono le storie delle persone, soprattutto di quelle che la Caritas diocesana conosce e aiuta da anni: i cosiddetti «lungo assistiti». Non si tratta solo di far conoscere – concretamente – le problematiche con cui hanno a che fare i Centri di ascolto: «Questo capitolo del Rapporto – si legge – nasce con l’intento di evidenziare le povertà e le risorse della rete di assistenza sociale pubblica ed ecclesiale», tenendo sempre a mente che – per quanto profondi e duraturi siano i problemi dei poveri – la parola d’ordine della Caritas non è «assistenzialismo» ma «accompagnamento». Così gli operatori provano ad accompagnare R., egiziano, 70 anni. In Italia da molti anni, R. se l’è cavata da solo per un bel po’ di tempo, lavorando nei mercati. Ma quello dell’ambulante non è un lavoro che si possa fare – come nel suo caso – in condizioni di salute precaria. Così piano piano R. ha smesso di pagare l’affitto ed ha cominciato a rivolgersi alle mense Caritas. È bastata una banale perdita d’acqua in casa – segnalata all’azienda dell’acqua ma mai risolta – per accumulare un debito record con Acque spa. Gli operatori Caritas ritengono la storia di R. un tipico esempio di «barbonismo domestico», aggravato dalle situazioni di salute dell’egiziano, sempre più problematiche. Totalmente diversa la storia di P., oggi sessantenne, italiana. Con alle spalle una storia di prostituzione, nel 2006 P. si è rivolta alla Caritas. Costretta alla dialisi, ha usufruito dell’assegno di invalidità che nel 2008 le è stato sospeso per qualche mese a causa di un disguido burocratico. Con il contributo del comune ha avuto una casa, mentre la Caritas le garantisce il pacco-spesa. Ultimamente però le condizioni di salute di P. sono peggiorate, tanto da dover rimanere sempre a letto e trascorrere lunghi periodi in ospedale. E ancora, scorrendo le pagine del rapporto, «incontriamo» A., rom di 37 anni, sposata e mamma di 4 figli. Arrivata in Italia dieci anni fa, nel 2006 ha chiesto alla Caritas il primo aiuto. Il marito lavorava come operaio, ma facevano fatica ugualmente a pagare l’affitto. Perciò hanno ottenuto il pacco-spesa per tre anni. Sfortunatamente nel 2008 il marito di A. ebbe un infortunio sul lavoro e non fu più assunto, ragion per cui gli operatori del Centro di ascolto l’aiutarono nella richiesta di pagamento all’Inail. Ad oggi il marito di A. è nuovamente impiegato, ma il suo stipendio non è sufficiente a mandare avanti la famiglia. Dal 2010 la famiglia usufruisce nuovamente del pacco-spesa.«La solitudine genera il disagio»Non è solo una questione di soldi. «Disagio deriva dal latino dis più addiacens, quindi letteralmente significa lontano» precisa don Emanuele Morelli – direttore della Caritas diocesana – in conclusione del Rapporto. «Le persone che incontriamo sono lontane da relazioni significative che sole sono capaci di far sentire loro quel conforto di cui hanno bisogno, di poter offrire loro quel confronto che può aiutarle a riprendere il loro cammino nella vita. Dal nostro Rapporto emerge quanto vivere da soli, isolati dal resto della comunità, sia un’impresa che ha il sapore dell’impossibile. Indifferenza ed isolamento sono il grande male del nostro tempo, mangiano come un tarlo anche la vita delle persone che presumono essere normali e devastano la vita di chi è già in difficoltà».