Dossier
I personaggi della Via Crucis
Nelle cinque domeniche di Quaresima, Toscanaoggi propone ai suoi lettori una galleria di figure della Via Crucis. Don Angelo Silei, biblista, tratteggerà il profilo di alcuni dei personaggi che Gesù incontra nelle varie stazioni. Figure che vengono dal Vangelo, come i due ladroni, mescolate a figure che fanno parte della tradizione popolare, come la Veronica; personaggi storici come Pilato, e personaggi di cui conosciamo solo il nome e poco più, come Simone di Cirene. Figure in cui possiamo identificarci: nel loro atteggiamento verso Gesù sofferente (scherno, indifferenza, pianto, compassione, misericordia ) ognuno può riconoscere il proprio modo di vivere la fede.
DI ANGELO SILEI
La prima stazione della Via Crucis recita così: Gesù è condannato a morte. E il quadro della stazione mostra sempre Pilato che giudica Gesù. La sua sentenza fu quella definitiva, e portò Gesù alla croce. Non sarebbe stato quello il suo supplizio se la sentenza fosse stata eseguita dal Sinedrio. Fu la croce perché così i romani punivano i ribelli stranieri.
Prima di Pilato il Sinedrio aveva dato la sua sentenza. E quindi, quando annunciamo: «Gesù fu condannato a morte», non dobbiamo pensare solo a Pilato ma anche al Sinedrio.
Il Sinedrio era il gran consiglio d’Israele, la sua autorità suprema: 70 uomini più il sommo sacerdote. Era come un’assemblea permanente che si riuniva ogni settimana a Gerusalemme. Decideva le cause, affrontava i problemi, seguiva la vita del popolo di Israele e lo rappresentava, anche davanti all’imperatore. Spesso suoi legati presentavano questioni a Roma davanti all’imperatore. Ne facevano parte aristocratici, famiglie di sommi sacerdoti, sacerdoti del tempio, membri attivi di movimenti, possidenti, dottori della Legge, famiglie influenti.
Quella notte il Sinedrio si era riunito nella casa di Caifa e aveva celebrato un processo sommario e per molti versi irregolare, con falsi testimoni, e aveva dichiarato Gesù reo di morte per aver parlato contro il Tempio e contro la Legge e per essersi dichiarato figlio di Dio. L’imminenza della Pasqua e la presenza di tanta gente, anche della Galilea, a Gerusalemme aveva indotto il Sinedrio a questa strategia. E così, al mattino presto, portarono Gesù davanti a Pilato per avere la sua convalida e l’esecuzione della sentenza di morte (così stabiliva la legge romana in quel tempo in Palestina).
E così anche Pilato si trovò invischiato in questa faccenda. È il motivo della sua celebrità. «Patì sotto Ponzio Pilato»: da quasi 2000 anni e fino alla fine del tempo e in ogni parte del mondo e in tutte le lingue uomini di ogni razza pronunciano il suo nome. Già la prima lettera a Timoteo, e poi gli scritti di sant’Ignazio di Antiochia, con queste parole siglano l’evento della morte di Gesù e del suo patire. Sussurrato nel segreto o proclamato in assemblee di credenti, cantato in gregoriano o in polifonia, nelle chiese di tutto il mondo, nelle cattedrali o nelle piccole cappelle, il nome di Pilato risuona, e così sarà fino alla fine del mondo. Forse anche nei cori del paradiso.
La storia profana conosce Ponzio Pilato. Ne parlano anche Filone e Giuseppe Flavio. Il suo ufficio durò 10 anni come procuratore o praefectus Iudeae come è scritto su un’antica lapide ritrovata a Cesarea. Gli storici antichi riferiscono del comportamento: crudele, venale, ingiusto al punto che fu destituito e esiliato in Gallia. Non era facile il ruolo: essere procuratore in Palestina era come essere inviato a fare il prefetto nel nostro meridione. La Palestina era ribelle per antonomasia: il problema fu risolto solo con una guerra spietata e disastrosa, la guerra giudaica vinta da Tito nel 70 d.C.
Anche la tradizione cristiana, oltre alla testimonianza evangelica, ha raccolto la vicenda di Pilato e ne ha fatto a volte un dannato infelice a volte un testimone pentito (la Francia e la Svizzera sono collegate alla sua fine). Uno spiraglio di simpatia lo apre l’episodio del sogno della moglie di Pilato (la tradizione ne fa una cristiana) riferito da Matteo 27,19, e anche il tentativo di giustificarlo che si intravede nei racconti della passione. Giovanni, coerente nella sua polemica antigiudaica, è il più insistente nella sua difesa.
È difficile sottrarsi all’interesse verso la figura di Pilato. Un debole o un cinico, un vigliacco o un violento, un uomo iniquo o un giudice severo. E i vangeli ci invitano a questo. Non sono assolutamente negativi nei suoi confronti, ma cercano delle attenuanti, pur non nascondendo le sue responsabilità. In fondo Pilato aveva l’autorità per salvare Gesù. Ma Gesù fu vittima del potere degli uomini, o meglio dell’abuso di potere.
Quella mattina di un inizio di primavera a Gerusalemme, molto presto, Pilato si trovò davanti l’uomo più misterioso e più fatale della sua storia, ma anche della storia del mondo. Era uno sconosciuto predicatore della Galilea, un rabbi come tanti, con discepoli e seguaci entusiasti, senza altra arma che quella della parola e senza appoggi consistenti a Gerusalemme. Si comportò come sempre si era comportato: sbrigativo, preoccupato di salvare più il suo potere e l’autorità del suo Cesare che non la vita di un condannato, interessato a non scontentare l’autorità giudaica, senza interesse alcuno verso le questioni religiose del popolo che controllava con il suo potere, preoccupato di non suscitare irritazione fra la gente calda della città santa (ne aveva uccisi di ribelli, mescolando il loro sangue con quello dei loro sacrifici!). Se la cavò in un paio d’ore. Fece un tentativo di scambio con Barabba, lo fece fustigare. Se ne lavò le mani. E poi lo consegnò ai suoi soldati per l’esecuzione. Insieme ad altri due. Uno dei tanti
Assistette alla festa di Pasqua convinto di aver risolto un altro piccolo problema della turbolenta Palestina. Così non fu. Tutto cominciò da quel processo, da quella sentenza e da quella morte. Da allora il suo nome è associato per l’eternità alla morte di Dio fatto uomo. «Patì fu crocifisso sotto Ponzio Pilato».
La storia lo ha giudicato. Ingiusto, sprezzante della verità, attaccato al suo piccolo potere. Ha condannato un innocente inerme. Ha preposto la ragione politica alla ragione della giustizia. Così appare Pilato.
Pilato come Giuda. Eppure anche attraverso questi nomi e questi uomini passa il mistero di quella morte che ha salvato il mondo.
Tra gli scritti apocrifi esiste un’antichissima tradizione di una corrispondenza fra Pilato e l’imperatore Tiberio. È chiaramente di ambiente cristiano. In essa viene attenuata la responsabilità di Pilato, ma viene anche denunciata la sua colpevolezza. Eccone alcuni stralci:
Sta bene. Il giorno 28 marzo.
Lo stesso scritto si prende cura di narrare la tragica morte di Pilato, come anche di Caifa e degli altri responsabili della morte di Gesù.
Si chiamava Simone ed era di Cirene, una città dell’Africa, nella Libia dalla parte dell’Egitto. Era un ebreo straniero a Gerusalemme, come tanti altri che per qualche motivo avevano scelto di stabilirsi nella città santa.
Il suo gesto non passò inosservato. I vangeli, a cominciare da quello di Marco più antico, con precisione annotano questo fatto. E lo fanno con la simpatia dovuta a chi ha alleggerito un po’ la sofferenza del Maestro. Ma certo la buona fama di Simone divenne più grande del suo gesto perché vi fu costretto.
Era padre di Alessandro e Rufo. Questa informazione lascia trapelare un fatto: che cioè questi due fratelli fossero conosciuti nella comunità cristiana di Gerusalemme e che quindi ne facessero parte. Questo fa pensare che quel gesto abbia avvicinato Simone in modo più personale al Signore e ne abbia fatto un credente.
Era di Cirene. Di cirenei si parla ancora nel Nuovo Testamento: gli Atti degli apostoli ci dicono che la sinagoga dove Stefano predicò a Gerusalemme era frequentata da cirenei e alessandrini (due città vicine nel nord Africa) e che di Cirene era anche Lucio, un maestro o profeta della comunità di Antiochia. È documentato che a Cirene c’era una comunità giudaica molto numerosa e attiva: ricordo in questa città una lapide del tempo di Traiano che parla di un suo intervento per sedare un tumulto giudaico nel 115 d.C.. Qualche ebreo di Cirene era poi emigrato come Simone e Lucio.
Grazie a Simone, nel nostro vocabolario «cireneo» non è più solo un titolo di cittadinanza, ma è diventato l’attributo di tutti coloro che aiutano concretamente chi è nel bisogno, portano sollievo a chi soffre, si fanno carico dei pesi degli altri. Costretto o no, questo ha fatto Simone. Non toccava per niente a lui, era completamente estraneo a quella storia, eppure portò il patibolo del condannato. E chi percorre la via della croce rimane colpito dal suo gesto ed è provocato a imitarlo. «Portate gli uni i pesi degli altri e così adempirete il comando di Cristo»: queste parole di Paolo le troviamo espresse plasticamente in quest’uomo che ha portato il peso della croce del Signore.
Ma il racconto della passione ci presenta altri «cirenei», uomini cioè che hanno espresso compassione verso Gesù. Si sono fatti avanti, uscendo dall’ombra, al momento della morte di Gesù. Non erano contadini o gente comune come Simone. Erano membri del Sinedrio che stimavano il maestro. Si tratta di Giuseppe d’Arimatea e di Nicodemo. Si occuparono, con premura e con coraggio, della sua sepoltura. Nicodemo, il maestro che una notte aveva dialogato con Gesù, portò 100 libbre di mirra e aloe. Giuseppe, ricco membro del Sinedrio, fece di più: si presentò a Pilato, chiese il corpo di Gesù (perché non finisse in una fossa comune o mangiato dai cani, come era sorte dei condannati), comprò un lenzuolo, depose Gesù dalla croce, lo mise nella tomba nuova che si era fatto scavare per sè in un giardino vicinissimo al Golgota.. Tutto in fretta perché il sabato stava per arrivare.
Cirenei anche loro. Perché in mezzo a tanto disprezzo, insulti, provocazioni, ebbero pietà, compirono – ed essi senza costrizione – un atto di amore e di compassione per il Signore. Vinsero anche, proprio in quel momento così critico, la paura e la vergogna per aver aderito al messaggio di Gesù e aver dissentito dall’operato del Sinedrio. Ebbero più coraggio degli apostoli che invece erano fuggiti e avevano lasciato solo il loro maestro.
Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo al momento della morte di Gesù non dettero prova di fede, ma di amore. Compirono – questi uomini, non le donne che solo stettero a guardare – un gesto di carità e lo fecero con generosità e a loro rischio. Seppellire i morti è un atto di amore. Così faceva a suo rischio anche il vecchio Tobia a Ninive e questo gli valse la benedizione di Dio. Sicuramente benedizione divina scese anche su questi due «cirenei dell’ora dopo», che dettero sepoltura decorosa a questo maestro che aveva annunciato l’arrivo del regno di Dio.
L’incontro con i personaggi della Via Crucis non può non considerare queste donne. Se aggiungiamo a questi passaggi la IV stazione dove Gesù incontra sua Madre e la scena della deposizione dove Gesù morto sta fra le sue braccia, vediamo una strada tutta segnata da attenzioni femminili. Ad esse possiamo aggiungere anche la moglie di Pilato con il suo sogno e la sua richiesta di liberare quell’uomo giusto. I, IV, VI, VIII, XII, XIII, XIV: sono le stazioni dove voci, lacrime, sentimenti, coraggio, amore di donne pietose accompagnano il cammino del Signore.
Fra le donne pie ebbe grande fama la Veronica. A lei è legato un ricordo molto particolare a cui soprattutto la tradizione medievale ha dedicato molta attenzione e venerazione: l’impronta del volto di Gesù sofferente, il Sacro Volto, il Mandylion (così simile alla Sindone). Secondo questa tradizione la donna si fece avanti e asciugò il volto sudato e insanguinato di Gesù lungo la salita al Calvario e sul panno restò impressa l’impronta del Salvatore. Veronica (o Berenike) è il suo nome: esso può derivare da «vera icona», cioè vera immagine. Ma c’è di più: in alcuni antichi apocrifi Veronica è il nome dell’emoroissa guarita da Gesù; essa – si racconta – «dipinse il suo volto mentre egli era ancora nel suo corpo».
Il velo della Veronica è stata una reliquia veneratissima e copiatissima in tutto l’alto e basso medioevo, dall’oriente all’occidente. L’Anonimo di Piacenza, antico pellegrino in Terra Santa nel 570, nel suo diario scrive: «Là vedemmo un panno di lino nel quale è impressa l’immagine del Salvatore. Si dice che quando era vivo si sia terso con quel panno il volto lasciandovi la sua immagine». Di qui la presenza di questo Sacro Volto in molti luoghi della cristianità: qui in Italia da 400 anni a Manoppello (Pescara).
Dentro questa tradizione molto popolare sta un tema caro alla preghiera e alla fede d’Israele: il tema della ricerca, della visione, del mistero del volto di Dio. Molti salmi esprimono questa aspirazione e questo desiderio. È particolarmente interessante ricordare che questo volto, il volto del velo della Veronica, è il volto sofferente di Gesù. Qui si nasconde veramente Dio. Ma è anche vero che qui si rivela e si dona alla comunione e all’incontro. Chi riconosce nel volto del condannato innocente il volto di Dio vive un’esperienza di fede impareggiabile.
Omaggio alle donne e al loro coraggio! Là dove gli uomini, i Dodici, si sono eclissati, sono fuggiti, si sono dileguati per la paura, le donne resistono, sono presenti. La forza dell’amore! La forza del sesso debole! Una lezione sempre attuale e provocatoria dei vangeli a proposito della preminenza maschile. Il cammino della croce svela adesioni e attaccamenti oltre ogni pregiudizio e preferenza. Oltre la Madre, queste donne intrecciano con veri gesti di pietà, di compassione, di coraggio, il percorso di Gesù sofferente e precedono i Dodici che pure erano stati scelti per «stare con lui», sempre, in ogni situazione, su ogni strada.
Chi non ha una spada, venda il mantello e ne compri una»: nel vangelo di Luca è una delle ultime parole di Gesù nell’ultima cena. Pochi minuti dopo uno dei discepoli, Pietro, la tirò fuori e colpì per difendere Gesù. Ma Gesù non ama le spade: il suo sarà un combattimento, ma non si disputerà con le armi, ma con l’amore.
Le ultime ore di Gesù sono in compagnia di uomini in armi. Mai prima gli era capitata una cosa simile. Soldati, guardie, ladroni accompagnano Gesù verso la morte. Fra tutti, due attirano l’attenzione nella via della croce: il buon ladrone e il centurione.
Ci sono tre croci sul Calvario. Tre uomini furono giustiziati insieme quella vigilia del sabato e nell’imminenza della Pasqua, vicino alla porta della città. Trattati come ribelli. «Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno a sinistra», riferiscono i vangeli. Si tratta quindi di «ladroni», lesthès. La parola è usata per indicare tipi diversi di malfattori: ladri, banditi, predoni, guerriglieri, rivoluzionari, zeloti. Certamente uomini violenti, armati. Con uno di loro Gesù fu messo a confronto davanti alla folla nel pretorio di Pilato: Barabba. E la folla scelse Barabba.
I due crocifissi con Gesù erano «ladroni». E – a dire egli evangelisti Marco e Matteo – per niente pentiti. Anche loro insultano Gesù. Ma il vangelo di Luca che fa sempre spazio a incontri segnati dalla misericordia, vuole fare spazio, anche della morte drammatica di Gesù, ad una storia di perdono. E così uno dei due diventa il «buon ladrone»: una vita violenta si chiude davanti a Gesù con un atto di pentimento, una richiesta di perdono e una promessa di salvezza. Nell’ultimo momento ha rubato il paradiso con la sua sincera supplica rivolta al condannato. È difficile capire cosa lo ha spinto a questo: forse aveva sentito parlare di questo maestro ed era sicuro della sua innocenza. Ma la preghiera del buon ladrone rimane una delle preghiere più coraggiose e piene di fede: è la supplica di un crocifisso ad un altro morente crocifisso, solo e senza speranza di salvezza. Così un uomo d’armi trova salvezza presso la croce.
Ma c’è un altro uomo armato che esce con onore dalla Via Crucis: il centurione che eseguì l’esecuzione capitale. I vangeli sinottici, a cominciare da Marco, ci riferiscono la sua dichiarazione subito dopo la morte di Gesù, «vedendolo morire in quel modo»: «Quest’uomo era veramente figlio di Dio». Ha dell’incredibile questa espressione: in tutto il corso del vangelo di Marco nessuno né i discepoli né la gente né i guariti da Gesù sono arrivati ad una professione di fede così alta. Un centurione, un soldato, un pagano arriva a dire che Gesù è figlio di Dio, e non davanti a un suo atto prodigioso ma davanti alla sua morte sul supplizio della croce. Per il lettore e per l’orante della Via Crucis è una provocazione e una sfida, e nello stesso tempo un’esortazione a percorrere fino alle radici il cammino della fede, non cercando solo prodigi o parole ma contemplando l’agonia del crocifisso. Qui sta il passaggio stretto non solo della fede, ma anche della vita del cristiano. Chiunque si avvicina a Gesù deve porsi accanto a questo soldato romano e provare, dalla stessa posizione, a condividere la sua dichiarazione.
Il Nuovo Testamento riserva quasi sempre un trattamento di favore verso gli uomini in armi. I soldati professionisti romani sono presentati come persone oneste e gentili. Ricordiamo il centurione di Cafarnao, come anche il centurione Cornelio, primo pagano battezzato a Cesarea. Giulio della coorte Augusta portò Paolo a Roma ed ebbe verso di lui anche gesti di gentilezza (At 27,1-3). Anche presso la croce i vangeli testimoniano una certa simpatia per questi uomini, violenti per professione. Il centurione e il buon ladrone sono uomini che hanno vissuto oltre il limite della sensibilità umana. Eppure anche loro, nella situazione più improbabile, hanno scoperto il tesoro prezioso e si sono aperti alla fede.
Ma ce n’è un altro di uomini armati. Lo dobbiamo ricordare. È armato di lancia: è il soldato che trafisse Gesù per dargli il colpo di grazia. Vide sgorgare sangue e acqua. Solo Giovanni ce ne parla. La tradizione cristiana, riconoscente, ha voluto dare un nome e una certa venerazione a questi uomini. Longino è il nome di quest’ultimo soldato o, secondo un’altra tradizione, il nome del centurione stesso (ma potrebbe essere la stessa persona): battezzato in seguito dagli Apostoli, fu testimone della fede e martire di Cristo in Asia Minore. Disma è il nome del ladrone pentito. Anche lui santo, come sostiene la tradizione. Lo ha canonizzato Gesù: «oggi sarai con me in paradiso». Oggi: senza passare dal purgatorio (!). A proposito di quest’ultimo ricordo la Cattedrale della diocesi di S. Josè dos Campos, vicino a San Paulo, dedicata a San Disma.
Egli rispose loro e disse: – Avete detto bene! Poiché sono stato un ladro e sulla terra ho fatto ogni genere di mali. Gli ebrei mi crocifissero con Gesù, vidi le cose mirabili che avvennero nel creato quando Gesù fu crocifisso, credetti che egli era il creatore di tutte le creature e il re onnipotente, e lo supplicai dicendo: «Ricordati di me, Signore, quando giungerai nel tuo regno». Subito egli accolse la mia supplica e mi disse: «In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso». Mi diede poi questo segno della croce dicendo: «Portalo andando in paradiso, e qualora l’angelo che custodisce il paradiso non ti permettesse di entrare, mostragli questo segno della croce e digli: Mi ha mandato Gesù Cristo, figlio di Dio, che ora è crocifisso». Io feci così e dissi all’angelo che custodisce il paradiso tutte queste cose. Udito ciò da me egli subito aprì, mi fece entrare, mi pose alla destra del paradiso dicendo: Ecco aspetta un poco, fino all’ingresso del padre di tutto il genere umano, Adamo, con tutti i suoi figli santi e giusti, dopo il trionfo e la gloria della ascensione di Cristo Signore Crocifisso.
Udendo queste parole del ladro, tutti i santi patriarchi e profeti dissero a una sola voce: – Benedetto, Signore Onnipotente, padre delle misericordie, che hai concesso una tale grazia ai tuoi peccatori e li hai introdotti nella grazia del paradiso.
Dobbiamo al vangelo di Giovanni la scena classica, universalmente rappresentata, in occidente e in oriente, della morte di Gesù: Gesù in croce e accanto Maria, il discepolo prediletto e le altre donne. Un piccolo gruppo dolorante e amante assiste alla morte del Signore. I vangeli sinottici sono molto più crudi e tragici: Gesù muore solo e abbandonato; le donne stanno lontano a guardare. Fra i due racconti non saprei dire quale è il più drammatico.
La presenza di Maria ha trovato nel corso dei secoli rappresentazioni sublimi, cariche di passione, nell’arte di tutti i tempi: nella musica e nella poesia, nella scultura e nella pittura. Pensiamo alla Pietà di Michelangelo e alle scene della Crocifissione di Masaccio e di Giotto o alla musica e alla poesia dello Stabat Mater e al Pianto della Madonna di Iacopone da Todi.
La scelta di Giovanni è condivisa pienamente dalla Via Crucis che colloca Maria alla IV stazione in un incontro pieno di dolore e di amore, alla XII di fronte a Gesù che muore e alla XIII nella deposizione dalla croce fra le braccia della madre.
Il fatto trova una premessa nella profezia di Simeone nel vangelo secondo Luca. Il vecchio devoto e ispirato, nel prendere il bambino fra le sue braccia, disse a Maria: «A te una spada trafiggerà l’anima». Nella Basilica del Santo Sepolcro fra l’altare della Crocifissione e quello della Morte c’è il piccolo altare dell’Addolorata. E così veneriamo due cuori: quello di Gesù coronato di spine e quello di Maria trafitto da sette spade.
Giovanni racconta: «Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria Maddalena. Gesù allora vedendo la madre e lì accanto il discepolo che egli amava, disse alla madre: Donna, ecco il tuo figlio! Poi disse al discepolo: Ecco la tua madre!».
Un lettore attento nota che si parla della «madre di Gesù», non si dice il suo nome Maria. E se il lettore ha anche buona memoria si ricorda che il quarto vangelo colloca Maria alle nozze di Cana e, anche questa volta, dicendo «la madre di Gesù». Madre e donna: sono i suoi nomi mentre sta in piedi presso la croce. E presso la croce è coinvolta in un dialogo col Figlio fatto di pochissime parole e silenzioso consenso: «Donna, ecco il tuo figlio Ecco la tua madre». E fu così che il discepolo amato la prese nella sua casa.
Il quarto vangelo ama gli enigmi e i simboli, e un grande simbolo è tracciato da queste linee presso la croce. In quella morte e in quel luogo avviene qualcosa di epocale. L’umanità inizia un nuovo cammino. La madre, la donna evocano un’altra donna, anch’essa madre, anzi «madre dei viventi»: Eva. Nel seguito del racconto un fianco è aperto come quello di Adamo e un giardino offre il luogo per il riposo del Figlio. Chi legge con la compagnia delle Scritture antiche il vangelo di Giovanni è rilanciato a questo punto verso il giardino dell’Eden e affiancato a quella donna che fu la madre dei viventi. Qui presso la croce, trova spazio e compito un’altra donna la cui qualifica è unicamente quella di essere madre. Il figlio che le è dato è il primo di una nuova umanità che inizia con la morte del Figlio Unico e che è generata dal suo fianco aperto.
Quello della morte sulla croce è come un parto, con i suoi dolori e le sue speranze, con le sue attese e la gioia «perché è nato un uomo». Maria è là. Non è solo la madre addolorata e forte di Gesù. È anche la madre dei credenti. Nel dolore partorisce di nuovo, come a Betlemme. E non solo un figlio, ma un popolo, quello dei discepoli. Per un’esorbitanza poco controllabile di simboli, Gesù non è solo il figlio, ma è anche lo sposo-Adamo, padre e progenitore di una nuova umanità.
Questa è la dimensione teologica della presenza di Maria presso la croce di Gesù. Come la canta spesso la liturgia, Maria è la nuova Eva.
Poi c’è tutta la profonda lettura dei suoi sentimenti interiori: il suo dolore di madre e la sua fede di discepola, la sofferenza atroce di chi vede uccidere il figlio e il silenzio obbediente come quello di Abramo illuminato da una grande fede. Tutte le immagini dell’arte e della devozione ce la presentano così: trafitta da sette spade, in piedi, «lacrimosa», Addolorata, sostenuta da Giovanni e dalle altre donne oppure fortemente in piedi a consolare il discepolo. Di ineguagliabile bellezza e intensità è infine la Pietà di Michelangelo: la giovane madre che tiene nelle sue braccia il figlio morto deposto dalla croce. Lei che lo aveva cullato bambino a Betlemme ora, dopo poco più di trent’anni, lo tiene fra le braccia senza più vita. Inizia così quell’ora, l’ora di Maria, quella in cui – così crede la comunità dei discepoli – unica e sola la Madre attese e credette nella resurrezione.