Opinioni & Commenti

I morti non si incontrano al cimitero

di Rodolfo Doni

Vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare…» Così Giovanni nell’Apocalisse. La frase ci dà quasi un senso di sgomento subito corretto dal pensiero: Vedremo Dio così com’è. Dunque: «Più vivi dei vivi». Tolgo questa frase dalla letteratura, dal titolo di una rubrica di Ugo Oletti sul «Corriere della Sera»: andava via via segnalando gli scrittori e i libri più degni del tempo. Ad essi sarebbe stata riservata la sopravvivenza in eterno secondo Ugo Foscolo: «Le Muse siedon custodi de’ sepolcri e quando/il tempo con sue fredde ali vi spazza/fin le rovine, le Pimplèe fan lieti/di lor canti i deserti, e l’armonia/vince di mille secoli il silenzio».

È una religiosità estetica della morte. E di questo tipo di religiosità – degradata essa pure a consuetudine sociale– è intrisa talora anche la nostra visita ai cimiteri, dove riposano le ceneri dei nostri cari.

Ma siamo sicuri, siamo davvero sicuri anche noi credenti che davvero essi siano più vivi di noi vivi perché essi «vedono Dio com’è»: i santi e beati, coloro che sono o saranno beati?Per mio conto devo dire che non sono un frequentatore assiduo dei cimiteri, come molti che hanno perso un loro caro stretto; e io ho un giovane figlio nella grande terrazza che si protende sulla valle e sulla città di Firenze, Trespiano. Questo figlio, dico pure subito, fin dal primo giorno, ormai dodici anni e cinque mesi fa, giorno dopo giorno ho ricercato e ritrovato in un altro luogo, di vita e non di morte, cioè l’Eucarestia, dov’egli, secondo la Fede, era ed è stretto al Corpo di Cristo e dove dunque anch’io potevo e posso, lì soltanto, ritrovarlo vivo.E altrettanto vivi, aggiungo – davvero più vivi dei vivi come diceva Oletti – ritrovo gli altri amici scrittori di cui ho posto sullo scaffale proprio davanti alla scrivania, i ritratti, datimi o ritagliati dai giornali; e potrei fare una fila di nomi che purtroppo (per me) non finisce più. Nominerò gli ultimi due, anche perché erano poco o punto credenti: Pampaloni e Baldacci. Per entrambi rivolgo le mie preghiere. E per coloro «che ne hanno più bisogno», come recita nel Rosario ogni sera Radio Maria, secondo il suggerimento della Madonna a Fatima.

Ma accanto a quella lunga catena di morti, davanti agli occhi sullo scaffale, nello spazio che resta dai libri – potrei dire sul davanzale dei libri dove appunto si collocano i fiori che adornano e profumano la casa – mi è accaduto di mettere (nel senso di non programmato) la fila dei miei santi. E non quelli di cui ho anche scritto la vita ma quelli che via via mi è venuto di raccogliere nelle immagini o ritagliare essi pure dai giornali. Non dirò qui del mio La Pira (che mi guarda sorridendo mentre io gli appoggio la mano sulla spalla), né della «povera» Gemma che ho posto vicino a Giuliano Agresti suo vescovo lucchese e biografo: chiamò lei povera «perché si appoggiò sul nulla, le cose deboli, e perciò ebbe tutto». Parlerò così di una santa proclamata di recente dal Papa e che mi è ancor più vicina teneramente quando ci penso: Raffaella Porras; fondatrice delle «Ancelle del Sacro cuore»; aveva passato a Roma gli ultimi trent’anni della sua vita in pieno isolamento per la diffidenza delle consorelle che la ritenevano incapace a tutto, e lei pure era convinta di questo: per cui l’occupazione e l’aiuto che da allora ella poté e volle dare era solo concentrato in un cestino pieno di biancheria da rammendare.

Siamo ben lontani dalle «urne dei forti» foscoliane che accendono «l’animo dei forti». Ma allora, secondo questa visione della vita e della morte, noi che crediamo essere i morti, nella comunione dei santi, più vivi dei vivi perché vedono Dio, noi che crediamo in un’altra vita, la vera vita, saremmo dei cultori di un sogno, mentre essi i forti credono al mito e questo mito hanno trasferito in consuetudine a certa parte delle folle che vanno ai cimiteri. Perché prima del tempo a sé il mortale, invidierà l’illusione… Non sono essi piuttosto i cultori di un mito? Consuetudine o mito, appunto, pur suscitatore di grande poesia. La fede non ha più del Mito suscitato nei grandi poeti grande poesia? Ma, appellandoci non più alla letteratura ma alla ricerca storica, le storie, sì, ci dicono che questa Fede non è un sogno perché quell’Uomo morto e sepolto apparve Risorto e anche a molte persone insieme, e «noi siamo qui a testimoniarlo» dissero. Apparve e mangiava, passava attraverso gli usci, si faceva toccare: stava senza farsi vedere, e poi compariva di nuovo. E un giorno si fece riconoscere solo quando spezzò il pane che aveva detto essere il suo corpo.

Perché, perché, noi possiamo oggi domandarci, anche allora, quando era umanamente vivo, spesso si nascondeva? Si nascondeva anche allora come oggi? Voleva forse educare noi a questa sua apparente assenza ma reale presenza? E quel farsi riconoscere ai due viandanti di Emmaus solo allo spezzare il pane, perché? Voleva forse far sapere a loro e a noi che lì avremmo potuto ritrovarlo, ritrovarlo vivo finché non fosse tornato.