Cultura & Società
«I medici», ovvero la crisi e l’eclisse della storia
Si è tenuta in pompissima magna, venerdì 14 ottobre, nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, l’anteprima della Fiction dedicata a I Medici masters of Florence, telekolossal prodotto da Lux Vide, Big Light Productions, Wild Bunch Tv, Rai Fiction, con la regia Sergio Mimica-Gezzan su un’idea di Nicholas Meyer e Frank Spotnitz.
Da martedì 18 ottobre i telespettatori italiani lo stanno vedendo in prima serata su RaiUno: quattro puntate costituite di due episodi ciascuna, una alla settimana. I Productors in Chief dell’impresa sono Matilde e Luca Bernabei, titolari della Lux Vide e figli del grande, indimenticabile Ettore Bernabei. La ragione del titolo in inglese, ampiamente giustificato per l’edizione internazionale dell’evento, resta ignota per quella dedicata al pubblico italiano, in linea di massima pseudoanglofono perfino in molti ambienti fra i più elevati della sua società e della sua cultura: tantopiù che il termine master suona molto ambiguo se e quando usato per tradurre un concetto riferito al Quattrocento fiorentino. I Medici «signori» di Firenze? Non lo furono propriamente e tecnicamente fino al 1512, quando la famiglia tornò dall’esilio sotto l’egida del figlio del magnifico Lorenzo, il cardinal Giovanni (papa Leone X). I Medici «padroni» di Firenze? In termini quasi malavitosi, Giovanni di Bicci e Cosimo di Giovanni («Cosimo il Vecchio») ne furono piuttosto «padrini». Il messaggio che il titolo in inglese vorrebbe veicolare rimane ambiguo. E il suo contenuto?
A giudicare dal primo episodio, l’unico presentato in anteprima, si è dinanzi a uno spettacolo mediaticamente superbo: un «successo annunziato» già venduto in tutto il mondo che senza dubbio riverserà sulla Toscana schiere di nuovi, ammirati turisti. La qualità dei risultati è – rispetto al livello abituale di queste cose – notevole. Paesaggi splendidi: come ambiente per la ricostruzione degli esterni nelle città di Firenze e nel suo contado si sono privilegiati soprattutto Valdorcia (Pienza, Montepulciano, Bagno Vignoni) e Alto Lazio (Viterbo, la villa di Caprarola), scorci artistici mozzafiato ancorché arditamente sprezzanti della filologia e per nulla spauriti dal rischio dell’anacronismo (con il risultato che personaggi primoquattrocenteschi si muovono a loro agio in ambienti architettonici e di fronte a realizzazioni pittoriche e scultoree spesso tardocinquecentesche). Grande come sempre l’interpretazione di Dustin Hoffman nel ruolo di Giovanni di Bicci de’ Medici; semplicemente bellissima Miriam Leone non solo per le sue scene di «nudo», ma anche per il suo profilo veramente «rinascimentale». Belle musiche risultato della collaborazione tra Paolo Buonvino e la Pop Star Skin; interessanti e quasi pertinenti costumi interpretati da Alessandro Lai con una qualche attenzione filologica e un’originale reinvenzione della tavola cromatica rinascimentale con l’introduzione di modernissimi toni «sfumati». Possiamo definirlo un bello spettacolo? Forse.
Ma vi chiederete dove sia la storia. Su ciò questo povero professore fiorentino, che ha lavorato e lavora con la Rai e che ha collaborato più volte (anche come consulente) con la Lux Vide, non sospenderà il giudizio: si limiterà a tacere, per il rispetto affettuoso ch’egli deve alla venerabile memoria di Ettore Bernabei e per l’amicizia che continua a sentire per i suoi figli Matilde e Luca.
Va tuttavia detto che la storia, semplicemente intesa come corretta ricostruzione dei fatti e loro attenta discussione critica, semplicemente non c’è. Eppure, entro certi limiti, sarebbe stato pur lecito aspettarsela. Ma a proposito di livello storico basti citare le prime due righe e mezzo della Presentazione (opportunamente anonima) apparsa su «NewsRAI», LVIII, 49, 14 ottobre 2016: «A metà del Quattrocento i ricchi sono ricchissimi, e i poveri poverissimi. Non esiste il ceto medio della borghesia. Se nasci ricco fai di tutto per rimanere tale, e se nasci povero sai che anche i tuoi figli lo saranno». Letto ciò, si capisce a che punto è la notte.
Sic. I Medici Rai-Lux Vide vorrebbero dunque introdurre in questa Firenze quattrocentesca un po’ di giustizia sociale e naturalmente anche la pace; ma i nobili-potenti come gli Albizzi (per inciso talvolta si nomina Rinaldo) li contrastano perché vogliono l’ingiustizia, la disuguaglianza e la guerra.
Et voilà. Tre secoli della storia che tra XII e XV secolo ha condotto alla «prima ondata» dei Medici al potere – la lotta tra nobiltà del contado e cittadini e poi tra magnati guelfi e magnati ghibellini e quindi tra magnati e popolo; e poi ancora tra popolo «grasso», «medio», «magro» e «minuto»; e il «Comune delle Arti»; e lo stabilizzarsi dopo la Morte Nera del 1348-50 dell’oligarchia dei grandi imprenditori ormai guadagnati al train de vie aristocratico; e quindi l’alleanza dei Medici, degli Albizzi e dei Pazzi contro gli Alberti; e poi ancora i giri di walzer degli ex-alleati e la lotta tra Medici e Albizzi prima, tra Medici e Pazzi poi sullo sfondo dell’ingarbugliato «piccolo scisma d’Occidente» e del ristabilirsi dell’autorità pontificia – tutto ciò insomma è ignorato, tutto viene confuso in un melting pot che sposta il concilio di Pisa del 1409 a Roma, descrive l’appoggio di Cosimo al cardinal Cossa e poi il suo abbandono ma non giunge a spiegarlo, s’immagina le tensioni nella Signoria fiorentina come risse nel Consiglio comunale di Rignano sull’Arno, sposta di un buon ventennio la guerra di Lucca senza capir nulla del triangolo di alleanze e di rivalità tra Firenze, Milano e Venezia, parla della cupola del duomo fiorentino olimpicamente ignorandone i rapporti con l’architettura islamica persiana e ponendola in rapporto con il Pantheon (e il bel libro rivoluzionario di Hans Belting? Ma non potevano almeno sentire il nostro Paolo Galluzzi?), usa per i cardinali il seicentesco epiteto di «eminenza» e così via. Il tutto in un crescendo di errori, d’invenzioni arbitrarie e di «trovate» antistoriche, con tanto di sciocchezze e di confusioni a proposito dello sviluppo degli strumenti creditizi e della vexata quaestio relativa all’usura.
Ma il punto non è affatto che la parte storica di questa fiction sia imprecisa, o sbagliata, o trascurata. Il fatto è che essa è olimpicamente, programmaticamente ed esplicitamente ignorata dai coautori Spotnitz e Meyer, i quali si attribuiscono la «scoperta» che i Medici avrebbero presieduto alla nascita della «classe media» e sostengono di aver voluto presentare «non i dati storici, ma piuttosto ciò che non si trovava nei libri di storia».
Eccoci al punto: quali libri di storia? Hanno consultato mai forse le opere di Rubinstein, di De Roover, di Becker, di Martines, di Molho, o magari dei nostri Garin, Garfagnini, Viti, Zorzi, Ventrone, Galluzzi, Ferrone e di mille altri studiosi tutti autorevoli? Fino ad alcuni lustri fa, per la consulenza a un film «storico» si scomodavano fior di specialisti: per la riduzione cinematografica de Il Nome della Rosa si arrivò a «ingaggiare» Jacques Le Goff, per quanto poi di rado se ne seguissero le indicazioni. Ma ora? Notte e nebbia. Nel lungo elenco del cast, nemmeno una parola, un nome di studioso, un titolo di libro di riferimento.
Tuttavia, non drammatizziamo. Gli sceneggiatori lo hanno sostenuto con chiarezza: la storia non li interessa, non li riguarda. Questa è una fiction, non è un «romanzo storico» nel quale ci si aspetta che la realtà del passato sia ricostruita e rispettata a parte un minimo d’«invasibilità» fantastica. Qui dalla storia, a parte una lontana ispirazione, semplicemente e puramente si astrae. Ma allora il riferimento ai «libri di storia» nei quali non si troverebbero certe cose suona contradditorio, se non addirittura un po’ grottesco: le cose narrate e i personaggi proposti, in quei libri – mai consultati – non si trovano in quanto né gli né alla storia corrispondono, anzi non vi appartengono. Siamo dinanzi a un serial che si apre sulla murder story dell’a quanto si sa mai avvenuto assassinio di Giovanni di Bicci e si sviluppa tra allusioni al complesso ruolo dei Medici come banchieri e come famiglia influente prima, prominente poi in Firenze e una velleitaria allusione al loro conflitto con i rivali casati degli Albizzi prima, dei Pazzi poi.
Un’occasione perduta? Dal minoritario e residuale punto di vista dei cultori di storia, senza dubbio. Il fatto è tuttavia che, in pochi anni (facciamo tre-quattro lustri), nel «nostro Occidente» molte cose, magari perfino troppe, sono cambiate. Il «primato della storia», che ha signoreggiato nella nostra cultura tra l’inizio dell’Ottocento fin addentro la seconda metà del Novecento, è andato dissolvendosi.
Ancora una ventina di anni fa, una così sfacciata manipolazione degli eventi del passato avrebbe fatto scalpore. Vedremo quali ne saranno gli effetti: ma resta fermo tuttavia il fatto che oggi, al massimo, la storia interessa come «narrazione» divertente o curiosa, quando non addirittura soltanto come game, come «gioco di ruolo». Trionfa nelle piazze dove si celebrano festivals e saghe, esulta tra balestrieri, sbandieratori e porchette, ma sta scomparendo dall’insegnamento universitario e non contribuisce più a creare né coscienze critiche, né posti di lavoro.
È suscettibile di modificarsi o addirittura di rovesciarsi, questo trend? Forse. Alla sua reversibilità lavoriamo in tanti, ad esempio noialtri del team del programma televisivo de Il Tempo e la Storia
Si rassegnino pertanto i telereazionari. I beati tempi dei Medici sceneggiati da Rossellini con una cura erudita che giungeva quasi al maniacale non torneranno più: o, se torneranno, chissà in quale disastroso contesto dovremo sorbirceli. Tanto per parafrasare Humphrey Bogart, questa è la storia dell’età postmoderna, baby: e tu non puoi farci proprio niente.