Toscana

I figli? Un investimento sul futuro. Parola di Claudio Martini

DI ANDREA FAGIOLI

Qualcuno suggeriva d’intitolare quest’intervista «Martini: sì parti», visto il protagonista (il presidente della Regione, omonimo dello spumante oggetto di una martellante campagna pubblicitaria natalizia con George Clooney: «No Martini, no party») e visto l’argomento (l’appello a fare più figli, ovvero a partorire di più). Ma l’argomento è troppo serio e impegnativo per essere trattato con leggerezza.

Andiamo dunque con ordine. L’Irpet, l’istituto regionale per la programmazione economica, presenta una ricerca su «Benessere e condizioni di vita in Toscana». Il presidente della Regione, Claudio Martini (Ds), la legge, ascolta le analisi dei curatori e capisce che siamo alla frutta: la Toscana è la regione più vecchia d’Italia. Pur essendo uno dei luoghi al mondo dove si vive meglio, è al tempo stesso uno dei luoghi al mondo dove si fanno meno figli. Da qui l’appello lanciato attraverso le colonne de «La Repubblica»: «Fate più figli, la Regione vi aiuterà». Proviamo allora, con Martini, a capire cosa l’ha spinto a «scommettere sul futuro».

Presidente, da quali considerazioni, al di là del rapporto Irpet, nasce il suo appello? Ci sono motivazioni più profonde che non quelle del rischio di «estinzione» dei toscani?

«L’appello nasce da un moto di consapevolezza. Ho l’impressione che questo tema, che non riguarda solo la Toscana ma gran parte dell’Europa, sia stato finora sottovalutato. Lanciare un appello serve a smuovere le acque, a non considerare la denatalità come un dato fra i tanti. Con l’appello voglio dare una sferzata culturale, invitare tutti ad occuparsi della questione, che è molto complessa e per la quale non credo ci sia una soluzione unica. Io credo che il dato sia molto più profondo e riguardi aspetti etici, culturali, quantità e qualità dei servizi, organizzazione, concezione della famiglia o delle famiglie. Nella riunione programmatica della Giunta regionale abbiamo deciso di costituire un gruppo di lavoro altamente qualificato, interdisciplinare, con demografi, ecologi, economisti, esperti di scienze sociali, per essere aiutati ad individuare tutte le possibili cause e quindi le possibili iniziative».

Questo ragionamento sembra piuttosto nuovo rispetto a quelli fatti negli ultimi anni da alcuni partiti della sinistra. Ovvero: quelli che possiamo definire i «vecchi comunisti» erano laicamente convinti del valore della famiglia e dei figli, ma poi c’è stata una generazione, o più generazioni che ci hanno creduto meno. Il suo ragionamento è quindi qualcosa di diverso rispetto al passato più recente?

«Forse è qualcosa di più ampio. Ma non nego che ci sia il bisogno di aggiornare un’approccio culturale al problema. Forse negli ultimi tempi abbiamo parlato troppo di economia e poco di cultura intesa nel senso di umanità, di organizzazione della vita sociale e in questo quadro abbiamo parlato poco anche della famiglia».

Sul suo ragionamento, prettamente laico, dovrebbe aver trovato consenso da parti culturalmente e politicamente diverse. È così?

«Siamo ancora all’inizio. Quando cominceremo a parlare di terapie ci potranno essere accentuazioni diverse. Ma intanto sull’idea di non rassegnarsi a questo declino demografico per farne invece una questione di qualità dello sviluppo ho trovato attenzione, disponibilità e anche condivisione. Ovviamente io rimango in una dimensione laica, forse più ancora che per le mie convinzioni per il mio ruolo di presidente che non può fare professioni di fede, ma devo dire che dietro questo ragionamento c’è un qualcosa di ulteriore perché l’indagine dell’Irpet, da vari punti di vista, segnala che la comunità toscana è una comunità che gode di un’alta qualità della vita, e non solo come qualità materiale, però questa qualità, paradossalmente è talmente elevata da indurre una sorta di appagamento, di fuga dalle novità e quindi una scarsa propensione al rischio, all’investimento. Ecco perché ho parlato e parlo di investire sul futuro. Il fare figli, anche se poi non mi sfugge che bisogna creare le condizioni perché la famiglia possa svilupparsi bene, è in qualche modo una delle cartine di tornasole di questa scelta dell’investimento: forse la più implicita».

Oltre alle politiche, che non sono semplici da definire ma comunque possibili, come pensa di risolvere quello che lei definisce un problema di cultura?

«Le modificazioni culturali sono più lente, più profonde. Valga però un paragone: quello con la coscienza ambientalista. Credo che nessuno oggi possa rinunciare a misurarsi con il tema dell’ambiente. Ne parlano tutti, in un modo o nell’altro, persino easagerando. Trent’anni fa la coscienza ambientalista non esisteva. Ad esempio, si costruiva dappertutto senza preoccuparsi di quello che comportava per l’ecosistema. Oggi invece per ogni minima cosa ci si interroga sulle conseguenze sul clima, sui fiumi, sugli argini…. Questo perché ad un certo punto si è creata una cultura, un’attenzione al tema dell’ambiente. Penso che quello sulla natalità debba essere un processo della stessa natura. Dobbiamo diffondere l’idea che non possiamo adagiarci sulla realtà esistente anche se qualitativamente elevata, che bisogna avere il gusto dell’investimento di vita».

E la Regione cosa pensa di fare in proposito?

«Intanto veicolare questo messaggio. Poi facendo essa stessa scelte d’investimento. Ad esempio sulla famiglia, su una migliore qualità dei servizi sanitari, sulle case per gli studenti universitari…. Insomma deve fare investimenti visibili, che facciano eco, che inducano ad un comportamento, che diano fiducia, che facciano dire: “Se sul futuro ci scommettono le istituzioni, perché non dovrei scommetterci anch’io?”. Credo che la Regione abbia anche questo compito: fare delle cose e veicolare un messaggio».

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