Opinioni & Commenti
I figli non sono «beni di consumo»
di Domenico Delle Foglie
Se c’è un campo nel quale i cattolici non fanno mai venire meno la progettazione sociale è certamente quello della famiglia. Ne è dimostrazione tangibile il Rapporto 2009 del Cisf (Centro internazionale studi famiglia), che ha lanciato nel dibattito pubblico la provocazione sul «costo dei figli». Con l’addentellato che oggi, all’inizio del terzo Millennio, i genitori italiani considerano i figli alla stregua di un «bene di consumo» del quale si valutano sul mercato i costi base (immaginiamo per un «modello base») al pari di come si farebbe per l’acquisto di un elettrodomestico o di un pacchetto vacanze. Un’autentica rivoluzione antropologica sul cui valore simbolico forse vale la pena soffermarsi.
Sostiene Zygmunt Bauman, il sociologo della «modernità liquida», che «siamo consumatori in una società di consumatori. La società dei consumi è una società di mercato; tutti noi siamo nel e sul mercato, in modo intercambiabile o simultaneamente acquirenti e merci. Non meraviglia che l’uso/consumo delle relazioni si adatti velocemente al modello dell’uso/consumo della macchina, ripetendo il ciclo che inizia con l’acquisto e finisce con lo smaltimento dei rifiuti».
Se le relazioni personali e familiari sono modellate sul consumo, perché non concepire i figli come «beni di consumo» e alla fine mettere tutto sulla bilancia dei profitti e delle perdite? In sostanza, ciò che oggi spinge alla scelta o meno di fare un figlio è la valutazione del «se ce lo possiamo permettere». Il che ha due conseguenze immediate: l’assoggettamento di una scelta dal fortissimo valore antropologico e relazionale a un calcolo economico; l’eclissi di ogni motivazione «altra».
Ogni tempo attribuisce alla famiglia, e con essa alla genitorialità, significati diversi. Se viviamo immersi nella società dei consumi, coltiviamo rapporti interpersonali improntati allo scambio. E tutto ciò vale sia per la vita di coppia sia per i rapporti con i figli. Ma possiamo arrenderci a questo tipo di deriva? A questa eclissi di senso? O siamo in condizione di porre le premesse per rivisitare con le nostre categorie culturali e dare un senso moderno a quel «di generazione in generazione» che contraddistingue non solo la sensibilità dei credenti, ma è garanzia per tutti i cittadini?
Tornando alla capacità di progettazione sociale dei cattolici italiani, ecco un terreno sul quale sperimentarsi per offrire al Paese, al di là della denuncia peraltro doverosa dei ritardi della politica, un modello capace di restituire valore in sé alla natalità. Per dirla tutta: un popolo non può sopravvivere a se stesso se è incapace di dare un senso al futuro. Nella società contadina come in quella industriale veniva coltivata la scelta di mettere al mondo i figli. Con motivazioni spesso persino egoistiche, quasi come un’assicurazione sul futuro, ai tempi in cui le pensioni non erano ancora una certezza sociale. Ma oggi? Non è secondario rispondere a domande del tipo «perché voglio un figlio?». O anche «perché non voglio un figlio?». Per il futuro dell’Italia è assolutamente necessario scavare nel profondo di noi stessi e provare ad abbozzare una risposta sincera e non ideologica. Magari condivisa.