Cultura & Società
I fagioli
di Gian Marco Mazzanti
Zolfino, Giallorino, Aquila, Scritto, Marmino, Lupinaro, Coco nano, e molti altri: sono solo alcuni dei nomi dei fagioli presenti sul territorio toscano. Nomi strani, nomi sconosciuti, nomi di fantasia, ma nemmeno poi tanto, comunque nomi di semplici fagioli che però celano usi, costumi, storia di tanti nobili popoli.
Con il termine «fagiolo» si intende una pianta appartenente alla famiglia delle «leguminose» e della quale esistono più di 14000 varietà, la maggior parte di queste originarie dell’America Meridionale. Solo nel 1957, grazie ad un accurato studio sui fagioli preistorici rinvenuti nelle tombe precolombiane, è stata confermata l’esistenza di due gruppi primari di fagioli ben distinti tra loro per le caratteristiche morfologiche della pianta e del seme, uno euro-afroasiatico (la specie Vigna unguiculata) e uno americano (la specie Phaseolus vulgaris).
Furono i coloni greci, intorno al 300 a.C., a trapiantare i fagioli dall’occhio (Vigna), di origine africana, nella Magna Grecia, da dove si sarebbero diffusi nel resto della Penisola. Bisognerà, però, aspettare la scoperta del nuovo mondo, perché in Europa si conosca il fagiolo comune (Phaseolus), pianta originaria del Messico e Guatemala. Quando Cristoforo Colombo nel 1492 arrivò in America, rimase stupefatto della grande quantità di piante presenti in quella terra e, ritenendole di molto pregio, ne portò con sé numerosi campioni; lo stesso Colombo annotò nel suo diario di bordo che le tante varietà di fagioli e fave trovate erano assai diverse da quelle conosciute fino ad allora. Ma questi fagioli americani, seppur diversi da quelli europei, furono accettati e graditi fin da subito, cosa che non avvenne, per esempio, con il pomodoro e la patata. Il fagiolo comune venne introdotto in Italia tra il 1528 e il 1532 e la sua coltivazione fu praticamente contemporanea in Veneto e in Toscana dove ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita delle popolazioni locali.
Firenze, centro artistico e commerciale, fu tra le prime città ad assaggiare i fagioli che comparvero nei più fastosi banchetti. A questo proposito, il noto scrittore Giovanni Parenti scrive che il Phaseolus vulgaris, il fagiolo comune, quello americano per capirsi, fu donato dall’imperatore di Spagna, Carlo V, al Papa Clemente VII, al secolo Giulio de’ Medici, e da quest’ultimo fatto conoscere ai fiorentini. A Firenze, quindi, ma anche in tutta la Toscana, il nuovo fagiolo suscitò l’entusiasmo sia dei popolani che dei signori, tanto che nel 1533 Alessandro de’ Medici ne donò alcuni a Caterina dei Medici in occasione delle nozze della sorella con Enrico II di Francia, introducendo questo piatto anche nelle tavole d’oltralpe.
In Toscana, quindi, la conoscenza dei fagioli, attestata già fin dal Cinquecento, cresce con il passare dei secoli, tanto che, ai primi dell’Ottocento erano già tante le varietà coltivate, fenomeno confermato dai numerosissimi orti che circondavano quasi tutte le città e in particolare Firenze. Dalla nota dei prezzi del 1850 del Mercato di Firenze risulta che in commercio si trovavano diverse qualità di fagioli raggruppate in quattro tipi: fagioli bianchi, che spuntavano il prezzo più alto; fagioli comuni; fagioli grigi toscani e fagioli dall’occhio.
Ma anche in seguito, risulta che, dalla fine dell’Ottocento fino alla fine degli anni ’50, quando l’agricoltura cominciò a perdere progressivamente importanza in seguito allo sviluppo industriale, la coltivazione dei fagioli in Toscana ha rivestito un ruolo di notevole rilevanza, in quanto tali prodotti rappresentavano l’elemento cardine per l’alimentazione della famiglia contadina e non. I fagioli, quindi, si coltivavano in buona parte per autoconsumo e rappresentavano un’importante base proteica della dieta alimentare dell’epoca. La carne, è noto, si consumava solo nei giorni di festa ed i piatti poveri in grado di soddisfare le esigenze nutrizionali vedevano uniti i prodotti che ogni famiglia era in grado di produrre: cereali, sotto forma di pane e di pasta, e fagioli. Per soddisfare le esigenze delle famiglie, la produzione dei fagioli doveva essere in grado di coprire tutto l’arco dell’anno. Per questo motivo accanto alle cultivar per il consumo fresco, utilizzate da luglio a ottobre, troviamo quelli per la produzione di granella secca la quale poteva essere conservata per lungo tempo e utilizzata anche lontano dal periodo della raccolta.
Il largo uso di fagioli nella dieta dei toscani si spiega con il fatto che la cucina della nostra regione, ha come norma principale la semplicità e cosa c’è di più semplice di mettere un fiasco spagliato con dentro i fagioli a cuocere sopra la cenere al calore delle braci? La notorietà dei fagioli preparata in Toscana, è ribadita, agli inizi del ‘900, da certo Agnetti che così scrive in un capitolo di un suo libro: «I fagioli si mangiano in tutti i paesi del mondo, ma in nessun paese si mangiano così buoni, così saporiti, così teneri, così perfettamente cucinati e conditi, come in Toscana, e specialmente come a Firenze. I Fiorentini sono anche messi in canzonella dal resto dei toscani che hanno formato su di loro una specie di adagio popolare: fiorentini mangia fagioli, lecca piatti e tovaglioli».
La Toscana è terra di grandi cultivar e di grandi tradizioni sulle tecniche di coltura dei fagioli, tanto che è bene ricordare come questa pianta abbia dato anche un rilevante contributo alle locuzioni del dialetto toscano, come «andare a fagiolo» nel senso di andar bene, andare a genio, oppure «capita a fagiolo» o «ci casca a fagiolo» nel senso di accade al momento giusto, oppure «mi va a fagiolo» nel senso che mi piace, mi sta bene.
Terminiamo questa prima parte dedicata ai fagioli con un aneddoto.
Siamo all’incirca nel 1920, quando anche la Toscana era pervasa dai tormenti del Futurismo che dettava legge in ogni campo, compreso in cucina. Ed a questo proposito si ricorda che, al Circolo degli Artisti di Via de’ Servi, venne servito un banchetto a base di fagioli durante il quale si cantò un inno al fagiolo che iniziava così: «Ave o fagiolo, divinamente fiorentino, cui natura diede forma di cuore…» e poi l’inno terminava con: «Leviam, fratelli di mensa, l’inno secolare: Ave, o fagiolo!».