Opinioni & Commenti
I cinquant’anni del ponte tra est e ovest
di Mario Primicerio
Cinquant’anni fa, il 15 agosto 1959, dalla chiesa di San Luigi e poi dal Santuario della Santissima Trinità di Zagorsk, iniziava il viaggio di Giorgio La Pira a Mosca, la «capitale dell’impero del male», il nemico numero uno per l’intera civiltà occidentale.
Il viaggio di La Pira non voleva legittimare quel regime, nè giustificare il tipo di sistema politico che incarnava: voleva solo testimoniare che il metodo del dialogo è un metodo che porta frutti rispetto alla contrapposizione tout court. Un dialogo che non significa confusione o mimetismo, far finta che le cose non stiano in un certo modo, bensì riconoscere nell’altro un possibile interlocutore, senza nascondere le differenze. Infatti, una delle prime cose che La Pira fece a Mosca fu quella di manifestare, senza integralismo ma nello stesso tempo senza infingimenti, le sue convinzioni religiose affermando che occorreva liberare il popolo russo dal cadavere dell’ateismo. E questo suscitò non poche polemiche tanto è vero che la Pravda, mentre La Pira era ancora a Mosca, intervenne con un articolo di condanna di ogni deviazione dall’osservanza letterale dei principi base del regime sovietico.
La Pira in quel momento era la dimostrazione vivente che quando due interlocutori credono in qualcosa, e quindi non sono persone che navigano a vista ma si muovono sulla base di convinzioni, il dialogo è sempre utile.
Io credo che il mondo, ancora oggi, si divida in due categorie: quelli che credono in qualcosa e quelli che non credono in nulla. E quando dico credere in qualcosa non mi riferisco soltanto alla fede religiosa, ma a tutto un sistema di principi che vanno dall’etica, alla solidarietà, alla corresponsabilità. Quando due persone, due schieramenti, due soggetti hanno in comune una base di razionalità, una base di sistemi di valori su cui confrontarsi, il dialogo è sempre possibile. Anche se non dà risultati immediati, se non porta ad un accomodamento, a un compromesso, a una alleanza. In ogni caso è qualcosa che tiene aperta la porta.
Alla fine dei conti, quello che è successo trent’anni dopo, nel 1989 a Berlino, con la caduta di quelle che La Pira avrebbe definito le «mura di Gerico», non dico sia merito suo o di quelli come lui che tennero aperta la porta del dialogo, ma è certo che una transizione del genere, avvenuta senza spargimento di sangue, sia legata alla speranza di coloro che quella porta l’hanno sempre tenuta aperta.
Al contrario, quando all’avversario non si lascia una possibile soluzione, c’è il rischio che, messo all’angolo, prima di essere completamente sconfitto, pigi un bottone e ci porti tutti nella «Valle di Josaphat». In questo senso l’azione di La Pira si dimostra oggi, a cinquant’anni di distanza, un monito anche per il futuro.