Firenze

I cattolici delle “doleances” e i compiti della Chiesa

di Pietro De Marco*

Mi permetto di  proporre alla discussione una mia valutazione critica della Lettera alla Chiesa Fiorentina. Penso con rispetto ai molti amici che figurano nel gruppo estensore-promotore come nel nutrito elenco delle adesioni e spero vogliano leggermi con pazienza. 

Osservo in estrema sintesi che nella Lettera, forse per contrapposizione polemica,  la Chiesa sembra autenticarsi, nonostante o anche contro la norma ecclesiale, nel riconoscimento del “genuinamente umano”, nell’accettazione della laicità dei moderni come dato indiscusso, nella esibizione della sua (conseguente) incompetenza nell’ordine morale-sociale. Una civitas Dei disseminata, microcomunitaria-cultuale e coscienziale. Quale “disagio” porta dei laici (non i laici) cattolici alle doléances della Lettera?  Direi: anzitutto, come confermano diversi interventi alle assemblee occasionate dalla Lettera, la difficoltà di giustificarsi come membri di questa Chiesa (nel gergo, la chiesa dei recenti pontefici e del card. Ruini) di fronte ad una opinione pubblica laica che in alcune aree del paese crea l’impressione di essere senz’altro dominante e (con ciò) rappresentativa dell’uomo contemporaneo (!); e questa opinione pubblica è da decenni -non l’abbiamo dimenticato- in collisione con il magistero romano.

Ho esposto su ToscanaOggi una diagnosi della remissività cattolica di fronte alla disapprovazione laica e alla sua querula pressione morale; non parlo di quella politica ed economica locale, di ben altro tono. Questa obiettiva remissività è un buon punto di avvio per le mie controdeduzioni.

In effetti l’ansia “cattolico-critica” di fronte all’istanza giudicante laica è così forte che in nessuna riga della Lettera e in nessuno degli interventi ai dibattiti (cui ho assistito) compare il sospetto che i christifideles laici  abbiano il dovere (ma abbiano anzitutto la opportunità di fede e intelletto) di intendere le ragioni e le decisioni dei Pastori. Quanti hanno la consuetudine (da anni, da decenni) di leggere gli atti magisteriali ordinari, spesso notevolissimi, nella loro interezza e non negli spezzatini e nelle sprezzature dei soliti quattro quotidiani?  Chi lo avesse fatto non potrebbe oggi accettare il dispregio  “cattolico-critico” (inconsulto e tutto “politico”, entro e fuori la Chiesa) per il magistero antropologico di Giovanni Paolo II o per il richiamo al Logos e al diritto naturale di Benedetto XVI.  Quanti poi, tra i firmatari della Lettera che siano anche catechisti, colgono l’opportunità di formarsi  con l’ Introduzione al Cristianesimo di Joseph Ratzinger?

Si badi: la fecondità dell’ascoltare la Chiesa (prima che dell’esserne ascoltati), quella Chiesa che continua a riflettere ed operare secondo responsabilità, vale  anche  per i casi disciplinari: ma quanti “in stato di disagio” si sono preoccupati di  intendere i criteri della decisione del Vicariato sul caso Welby? Qualcuno ricorda che esiste una distinzione tra foro interno e foro esterno, e una peculiare gerarchia tra giustizia e carità? Sarebbe stata una buona occasione per apprendere. E non si ricava questo necessario sapere dal canale che traduce al laicato “critico” i documenti romani, ovvero la venerata Repubblica di Scalfari e Mauro, di Zagrebelsky e Merlo; così ci si scopre a coniugare (per anni o decenni) le citazioni del Concilio con gli insegnamenti dei “maestri laici”, le prime e i secondi sempre gli stessi.

Non sembra che qualcuno impedisca al laicato di parlare; il punto è che, con queste premesse, il laicato delle doléances ha poco da dire, e quel poco è di ostacolo ad una autonoma krisis, ad un adeguato giudicare cattolico. Ha detto Rémi Brague, profondamente: solo la Chiesa ha oggi, ma non da oggi, le risorse per tematizzare il Bene, la Verità, l’Essere. Ma quale nihilismo immobilizza l’intelligencija laicale (e teologica)?

Poco ha da dire anche la Lettera, se gli amici possono perdonarmi questo giudizio – un testo che (salvo un paio di riferimenti all’oggi) avrebbe potuto essere scritto indifferentemente dieci, venti, trenta anni fa. A Firenze, in particolare, una matrice di rigidità è nella orecchiabile persistenza dell’antropocentrismo dell’ultimo Balducci, che si era fatto un culto polemico dell’uomo (nella autonomia moderna). Chiedo: si può davvero credere che la retorica sull’uomo moderno,  retorica costitutivamente ostile ad ogni Chiesa che eserciti mandato e potestà di guida, sia all’altezza della svolta di millennio, dopo i decenni che hanno travolto la visione novecentesca (progressista) della Modernità? A maggior ragione perché quest’uomo è stato e resta un paradigma di comodo; lo si può usare nelle cose interne, per dichiarare l’esaurimento dell’istituzione, anzi dell’analogia fidei e aprire contenziosi con l’ecclesia docens

Oppongo, conclusivamente, alle tesi della Lettera ancora due notazioni:

1.Se alcuni cristiani non sanno affrontare la disapprovazione dell’uomo contemporaneo (in effetti di una intelligencija disorientata), lascino questo affrontement a chi ne ha forza e mandato, senza pretendere di frenarne l’azione. A mio avviso oggi il contradicitur della Chiesa  non potrebbe ricavare forza da sinodalità diffuse. D’altronde, né in linea di dottrina, né secondo la plausibile logica dell’agire carismatico, l’esercizio del carisma d’ufficio dei Pastori può essere ridotto a procedura, meno che mai a registrazione di un punto d’equilibrio tra gruppi ecclesiali di opinione e pressione (poiché questo rischia di essere la  “sintesi”).  La sacra potestas non è notariato.

2. Se il cattolicesimo non è morale, ha morale; uno straordinario ordinatore umano-divino del senso del nostro (umano) operare. Tanto più è necessario proporre gli istituti positivi della Legge cristiana. Essi celebrano il Dio creatore e proteggono la Creatura come tale. Il cosiddetto uomo contemporaneo non ha bisogno, e non chiede, di essere blandito o confermato, ma di essere avvertito, frenato, ostacolato, nelle proprie derive. Questo è esercizio di agape ed è il compito originario e non modificabile della civitas Dei.

*Docente di Sociologia della Religione all’Università di Firenze