Italia
I cattolici del Sol Levante, dal martirio alla speranza
Il museo della bomba atomica è impressionante: un piccolo calvario del cuore che le gru colorate di carta votiva dei bambini non leniscono. Uno di loro, Fujio Tsujimoto, aveva cinque anni quel giorno e ha scritto «Portami ancora nel passato, ancora un volta sola. Voglio mia madre, voglio mio padre, voglio mio fratello, voglio le mie sorelle». Si rimane senza parole di fronte ad un dolore così.
La storia è venuta fuori quando, a metà dell’Ottocento il Paese si è riaperto ai missionari e questi sparuti cattolici hanno raggiunto il sacerdote francese Petitjean nella piccola ma antica chiesa di Oura interrogandolo: «sei celibe? vieni da Roma? ami la Madonna? Sì, davvero? Ecco, noi abbiamo il tuo stesso cuore». Già il cuore, questo anelito dell’umano, anche il sacerdote scintoista che la delegazione incontra usa la stessa parola per rappresentare cosa unisce, poi fa purificare tutti con l’acqua ed entrare nel sancta sanctorum del tempio. In cima, seminascosta, c’è una tavoletta con un ideogramma splendido: «Kami» ovvero Dio.
Ma l’esperienza del cattolicesimo giapponese non è stata solo cittadina. Uno degli eccidi più imponenti avvenne nel 1600 nella penisola di Shimabara. A poco più di un’ora da Nagasaki c’è un posto chiamato «Inferno» ma molti tra i locali non sanno che per migliaia di loro compatrioti cristiani questo è il luogo che ha aperto le porte del paradiso. Li hanno bolliti vivi in queste zolfatare di Unzen allo stesso modo di come fanno oggi le contadine giapponese con le uova. Qui c’è una croce, in commemorazione, dietro un verde cespuglio: se non lo sai non la trovi. Ricorda i 37.000 cristiani decapitati in questa penisola durante il periodo delle persecuzioni: erano i primi anni dei Seicento. Contadini ma anche nobili guerrieri: samurai. Quelli che sembrano imbattibili e riempiono la fantasia di molti di noi. E se a Nagasaki i martiri avevano il conforto della popolazione qui morivano nella solitudine. La stessa che sente in un certo senso il parroco di questa zona, don Pietro Kuzushima. Dei 60.000 fedeli qui ce ne sono rimasti solo 110 in tutto il territorio.
«Siamo in terra di missione – racconta la sera a cena il vescovo di Nagasaki mons. Giuseppe Takami – facciamo di tutto, piani pastorali, ma le conversioni sono poche. Non per un’obiezione verso Cristo ma perché ormai i giovani hanno la loro religione che è quella del consumo condita con un relativismo sostanziale». Eppure le chiese – come edifici – hanno un loro fascino. Sono piccole ma curate: certamente fanno memoria in ogni vetrata del dolore sparso in queste terre. Non sono chiese dedicate a san Paolo o alla Vergine, questo mondo è dei martiri cattolici. E di una Chiesa che cerca di ritrovare un antico e sconosciuto splendore. Il vescovo Giuseppe vede che «la domanda di senso non è poi così sopita. Ogni anni qualcuno si converte e chiede di essere battezzato. C’è ancora speranza».
Una frase manifesto che meglio di tutte le altre ha segnato la missione della Chiesa cattolica. Lo conferma anche il vescovo locale Giuseppe Mitsue: «Questa è una città che ha la vocazione alla pace. Beati i costruttori di pace ci ripetiamo sempre. Noi abbiamo l’obbligo di essere testimoni della pace nei confronti dell’umanità. Vista la triste esperienza che abbiamo passato, abbiamo la responsabilità di fare in modo che non accada più».