Italia

I cattolici del Sol Levante, dal martirio alla speranza

di Enrico Viviano«La Chiesa in tutto il modo è sempre sorgente di Grazia». Don Andrea Bellandi, preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale è pieno di gratitudine per le persone e le testimonianze ascoltate in questi primi giorni in Giappone. Da cinque anni la facoltà fiorentina è impegnata in un gemellaggio con l’università del Koyasan, centro formativo e culturale del buddismo Shingon. Questa volta il viaggio parte da Nagasaki e Hiroshima, ma soprattutto prevede anche di incontrare la Chiesa locale. Ed è motivo di commozione per tutti i docenti. Un passato di martirioIl passato caratterizzato dal martirio di questo popolo ne ha segnato profondamente il carattere. Così come per tutto il Paese e quindi anche per i cattolici del sud l’esperienza della bomba atomica è come un punto dal quale non si può prescindere in ogni ragionamento, anche di prospettiva. Tutto qui parla di questa tragedia ma nonostante questo non si colgono parole di odio o di rivendicazione grazie anche ad alcuni testimoni che alla fine del conflitto riuscirono a condizionare positivamente l’opinione pubblica. Uno di questi è un medico, Takashi Nagai. Un testimone della pace. Nagasaki gli ha dedicato un museo. Il primo impatto è con una foto all’ingresso. Ha il rosario tra le mani, e sarà solo da un rosario ormai quasi fuso che riconoscerà sua moglie che in quel maledetto 9 agosto del 1945, quando una bomba atomica distrusse la città, perse la vita. Bruciata. In molti erano in chiesa nella cattedrale di Urakami completamente distrutta e finita di ricostruire solo con la visita del Papa nel 1981. Nagai ha scritto ben diciassette libri dal suo letto di morte, dall’agonia leucemica, ironia della sorte presa precedentemente alla bomba per alcuni esperimenti di radiologia. Calvo, esanime, in compagnia dei figli parlava di pace. Sempre.

Il museo della bomba atomica è impressionante: un piccolo calvario del cuore che le gru colorate di carta votiva dei bambini non leniscono. Uno di loro, Fujio Tsujimoto, aveva cinque anni quel giorno e ha scritto «Portami ancora nel passato, ancora un volta sola. Voglio mia madre, voglio mio padre, voglio mio fratello, voglio le mie sorelle». Si rimane senza parole di fronte ad un dolore così.

Nagasaki, città cristianaGuardandosi intorno rimane nell’anima un altro dato. Ed è di speranza. Nagasaki è stata permeata da Cristo. È impressionante. Per ben 250 anni un gruppo di 4000 cattolici ha tenuto nascosta la propria fede dopo le persecuzioni del periodo Tokugawa cominciate all’inizio del 1600. Senza sacerdoti, senza chiese: grazie al passaggio della fede all’interno delle famiglie. Nessuna deportazione li ha domati, nessun martirio li ha fermati. Una fede indomita e miracolosa. Testimoniata dai ventisei martiri santi di Nagasaki. 

La storia è venuta fuori quando, a metà dell’Ottocento il Paese si è riaperto ai missionari e questi sparuti cattolici hanno raggiunto il sacerdote francese Petitjean nella piccola ma antica chiesa di Oura interrogandolo: «sei celibe? vieni da Roma? ami la Madonna? Sì, davvero? Ecco, noi abbiamo il tuo stesso cuore». Già il cuore, questo anelito dell’umano, anche il sacerdote scintoista che la delegazione incontra usa la stessa parola per rappresentare cosa unisce, poi fa purificare tutti con l’acqua ed entrare nel sancta sanctorum del tempio. In cima, seminascosta, c’è una tavoletta con un ideogramma splendido: «Kami» ovvero Dio.

Ma l’esperienza del cattolicesimo giapponese non è stata solo cittadina. Uno degli eccidi più imponenti avvenne nel 1600 nella penisola di Shimabara. A poco più di un’ora da Nagasaki c’è un posto chiamato «Inferno» ma molti tra i locali non sanno che per migliaia di loro compatrioti cristiani questo è il luogo che ha aperto le porte del paradiso. Li hanno bolliti vivi in queste zolfatare di Unzen allo stesso modo di come fanno oggi le contadine giapponese con le uova. Qui c’è una croce, in commemorazione, dietro un verde cespuglio: se non lo sai non la trovi. Ricorda i 37.000 cristiani decapitati in questa penisola durante il periodo delle persecuzioni: erano i primi anni dei Seicento. Contadini ma anche nobili guerrieri: samurai. Quelli che sembrano imbattibili e riempiono la fantasia di molti di noi. E se a Nagasaki i martiri avevano il conforto della popolazione qui morivano nella solitudine. La stessa che sente in un certo senso il parroco di questa zona, don Pietro Kuzushima. Dei 60.000 fedeli qui ce ne sono rimasti solo 110 in tutto il territorio.

«Siamo in terra di missione – racconta la sera a cena il vescovo di Nagasaki mons. Giuseppe Takami – facciamo di tutto, piani pastorali, ma le conversioni sono poche. Non per un’obiezione verso Cristo ma perché ormai i giovani hanno la loro religione che è quella del consumo condita con un relativismo sostanziale». Eppure le chiese – come edifici – hanno un loro fascino. Sono piccole ma curate: certamente fanno memoria in ogni vetrata del dolore sparso in queste terre. Non sono chiese dedicate a san Paolo o alla Vergine, questo mondo è dei martiri cattolici. E di una Chiesa che cerca di ritrovare un antico e sconosciuto splendore. Il vescovo Giuseppe vede che «la domanda di senso non è poi così sopita. Ogni anni qualcuno si converte e chiede di essere battezzato. C’è ancora speranza».

Fumie, la sopravvissutaFumie Yoshida è un altro incontro che segna questo viaggio. Aveva 16 anni quando a Hiroshima è scoppiata la bomba alla 8.15 del 6 agosto 1945. Era al lavoro come tutti gli studenti giapponesi nei momenti della guerra. È composta, regale, come tutto questo popolo. Legge un foglio per non sbagliare ed è la cronaca fedele di una tragedia. Non risparmia dettagli, dai brandelli di carne al fuoco. Ovunque.  Hiroshima vanta il triste primato di essere la prima città dove è stata sganciata una bomba atomica. Solo il fatto di scriverlo mette i brividi. Il suo discorso è dettagliato, pensieri fermati all’istante come quegli orologi che la deflagrazione ha bloccato per sempre. Ed è una sequenza di morte. La sorella più piccola ritrovata sotto una trave della casa «sembrava addormentata», la sorella maggiore morta mentre lavorava nel Castello, quartiere generale dell’esercito. Di lei ne è rimasto solo qualche dente e qualche osso sotto la cenere dell’esplosione. Del babbo andato a lavorare in bicicletta nemmeno quello. Come per tanti degli abitanti di Hiroshima. Ne morirono più di centomila, altri col tempo per le radiazioni o quella pioggia nera intrisa di morte. La madre sopravvissuta con lei è arrivata fino a 95 anni. «Ho provato a rimuovere tutto questo per tanti anni – dice con pudore – ma poi ho deciso che poteva essere utile per non dimenticare». La figlia che l’accompagna è soddisfatta di tanto coraggio, con gli amici della Rissho Kosei-kai l’ha aiutata in questo percorso della memoria. Un monumento alla paceÈ proprio vero che un’amicizia vera permette di essere libero dal passato, anche dalle cose brutte, nella consapevolezza che non sono l’ultima parola su di te. In fondo è questo il segreto del rapporto tra i cattolici dei Focolari e questi simpatici buddisti. Un’amicizia che permette di pregare insieme senza sincretismo o pregiudizi. Avviene davanti al monumento che ricorda la bomba atomica in questa piazza che nel 1981 ha accolto anche Giovanni Paolo II. «La guerra è opera dell’uomo – disse – la guerra è distruzione, la guerra è morte. In nessun luogo queste verità si impongono con così tanto vigore come in questa città di Hiroshima, presso questo Monumento alla Pace. Tutti coloro che amano la vita sulla terra devono esortare i governi e coloro che prendono le decisioni in campo economico e sociale ad agire in armonia con le richieste di pace piuttosto che per un ottuso interesse egoistico. La pace deve essere sempre il fine, la pace deve essere perseguita e difesa in ogni circostanza. Non ripetiamo il passato, un passato di violenza e distruzione».

Una frase manifesto che meglio di tutte le altre ha segnato la missione  della Chiesa cattolica. Lo conferma anche il vescovo locale Giuseppe Mitsue: «Questa è una città che ha la vocazione alla pace. Beati i costruttori di pace ci ripetiamo sempre. Noi abbiamo l’obbligo di essere testimoni della pace nei confronti dell’umanità. Vista la triste esperienza che abbiamo passato, abbiamo la responsabilità di fare in modo che non accada più».