Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,1-3b).«Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunziare» (2Cor 12,2-4).«Che cosa amo, quando amo te?/ Signore, io ti amo./Non ho dubbio,/ anzi sono certo che ti amo./ Hai colpito il mio cuore con la tua parola/ ed io ti ho amato./ Ma che cosa amo, quando amo te?/ Non la bellezza del corpo,/non la leggiadria che passa,/non lo splendore della luce,/ questa luce così cara ai miei occhi;/non le dolci armonie dei canti più svariati;/non la fragranza dei fiori,/ dei profumi e degli aromi;/ non la manna né il miele,/ non le membra desiderate /per gli amplessi carnali./Nulla di tutto ciò amo,/ quando amo il mio Dio./ Eppure amo una certa luce,/una voce, un profumo,/un cibo, un amplesso,/quando amo il mio Dio:/luce, voce, profumo,/cibo, amplesso dell’uomo interiore/ch’è in me,/dove splende all’anima mia/una luce che non sta nello spazio,/dove risuona una voce /che il tempo non consuma/e si diffonde un profumo/che il vento non disperde,/dove gusto un sapore/che la voracità non attenua,/dove mi stringe un amplesso/che la sazietà mai può sciogliere./Tutto ciò amo,/quando amo il mio Dio» (Sant’Agostino, Confessioni X, 6,8).Sono, queste, tre splendide testimonianze di tre grandi comunicatori. Che cosa comunicavano? Ciò che avevano visto, udito, sperimentato, incontrato, vissuto. Essi non argomentavano filosofie religiose, ma narravano fatti loro accaduti.Già, perché il cristianesimo è una religione storica, non una filosofia religiosa.Abramo fu uomo di fede perché in un giorno il Signore lo chiamò, lo visitò, gli donò Isacco, lo mise alla prova, gli diede un’eredità numerosa.Così Mosè, il quale sperimentò lungo la sua vita la presenza grande e mirabile di Dio. Tutta la storia di Israele è racconto di questa vicinanza di Dio all’uomo. I profeti ne sono stati le voci più alte e drammatiche.La stessa fede in Cristo è radicata in avvenimenti storici. E gli apostoli comunicano un’esperienza di fede.Un’esperienza di fede che non è prerogativa esclusiva della primitiva comunità apostolica: a tutti gli uomini, infatti, è aperta la via di un incontro vivo e con il Signore grazie allo Spirito Santo (cfr Romani 8,1, La vita nello Spirito.). Infatti San Paolo, pur non avendo vissuto gli stessi avvenimenti di Pietro e degli altri apostoli, conosce Gesù di Nazareth e ne fa un’esperienza non meno grande e meno intensa degli altri apostoli.Così pure sant’Agostino, vissuto alcuni secoli dopo Gesù Cristo, può essere folgorato e abbagliato della bellezza di Dio e divenire uno dei più grandi cantori dell’amore del Signore per l’uomo.E queste esperienze, nella storia bimillenaria della Chiesa, si sono ripetute ed hanno generato folle di evangelizzatori che hanno portato l’annuncio del Vangelo in tutti i paesi della terra, a tutti i popoli dell’umanità.Ciò che fa di un cristiano anagrafico un comunicatore della fede è l’esperienza di Gesù Cristo.Può sembrare questa un’affermazione paradossale perché il battesimo che fa cristiani è la prima e la più grande esperienza della misericordia di Dio, quella che inserisce nella comunione trinitaria, fa figli di Dio liberi dal peccato. Eppure, in molti, questo grande evento sacramentale rimane un potenziale inespresso perché al battesimo ricevuto da piccolissimi non segue un’abilitazione ad essere e vivere da cristiani.È l’esperienza consapevole del Signore che abilita ad essere comunicatori della fede: infatti non basta conoscere la dottrina della fede, essa deve essere sostenuta e illuminata dall’esperienza della santità.È il santo il comunicatore per eccellenza della fede. Quando egli parla «in primo luogo, parla sotto influenza. Egli dà l’impressione di parlare non partendo da se stesso, dai propri ragionamenti, dalla propria scienza, bensì da un potere che è più grande di lui e a lui si impone. Egli parla sotto necessità. Senza dubbio è teologo, ma nei suoi occhi, nelle sue esitazioni, e nelle sue variazioni di umore ci accorgiamo che un Altro vive in lui e lo guida, un Altro che è oltre la scienza teologica (…). Soltanto chi ascolta Dio può fare ascoltare Dio. In secondo luogo, il santo mette in evidenza un paradosso permanente di forza e di debolezza. Se fosse soltanto debole, cioè inconsistente, non sarebbe ascoltato. Invece presenta proprio quell’indefinibile mescolanza che fa dire a Paolo: Quando sono debole, è allora che sono forte (2Cor 12,10) (…).Infine, il comunicatore della fede fa vedere la propria interiorità. Non solo le sue emozioni, le sue convinzioni intellettuali, ma il mistero che lo fa vivere. Mistero che egli svela non perché vuole, ma soltanto perché esiste: un segreto intimo che trabocca nelle sue risposte, negli occhi, nella mimica. In questo caso, la modulazione parla più delle parole» (cfr Babin P., «La catechesi nell’era della comunicazione», pp. 76-77, LDC).A riprova delle precedenti affermazioni leggiamo con attenzione le parole di San Francesco (nel box in basso) e capiremo subito che esse sono generate da un’esperienza di Dio che ha afferrato tutto il suo cuore e tutta la sua mente, tutta la sua persona, tutta la sua vita ed è penetrata sin nel profondo del suo essere.Questa è la santità: un’esperienza di Dio che afferra tutta la persona e tutta la purifica, la rinnova, la rigenera e le permette di brillare di luce nuova. È questa luce che illumina il volto del santo e rende chiarissime le sue parole. È questa luce che chi è nella nebbia o nella notte ricerca.«La comunicazione appassionata e il coinvolgimento personale rimangono , anche nella società multimediale , il linguaggio basilare dell’evangelizzazione» (cfr «Con il dono della carità..» Nota CEI 1996 n°5)Per questo l’educatore sarà comunicatore di fede nella misura in cui vivrà sempre più coerentemente la sequela Christi, connotata dal servizio educativo.Il servizio educativo deve divenire per ogni educatore non una cosa da fare, ma un proprio modo per vivere la santità e pertanto esso dovrà essere còlto come un tema generatore della propria spiritualità, del proprio cammino di santità. In questo senso essere educatori e vivere come educatori è vivere l’imperativo e la competenza di saper stare e consolidare la relazione con i ragazzi Comunicare la fede, dire Gesù ai ragazzi, nel nostro caso, è quindi capacità che sgorga da un cuore afferrato da Cristo, da un’intelligenza appassionata dalla causa del Vangelo e per questo attenta a tutte le acquisizioni pedagogiche. Sapere che è la santità la via per eccellenza della comunicazione della fede, non esime dalla competenza educativa anzi la invoca. Il Signore è giunto sino ad incarnarsi per parlarci e pertanto ogni buon educatore è chiamato ad incarnarsi nel mondo dell’altro, a parlare il linguaggio dell’altro, pena il non comunicare, il non farsi comprendere.