Toscana
I 60 anni della Costituzione
di Emanuele Rossi
Sessant’anni, nella vita di uno Stato e di un popolo, non sono certamente tanti, ma per una Costituzione come la nostra essi rappresentano una tappa indubbiamente significativa. Ricordiamoci infatti che quella approvata nel 1947 era nella sostanza la prima vera costituzione dello Stato italiano: quella precedente (lo Statuto albertino) non soltanto aveva poco di una costituzione come la intendiamo oggi (a partire dal fatto di essere stata redatta dai consiglieri del Re e da quest’ultimo concessa, «con lealtà di Re e con affetto di Padre» ai suoi «amatissimi sudditi», senza alcuna forma di approvazione popolare, diretta o indiretta), ma soprattutto aveva rivelato nel corso della propria vigenza l’incapacità a regolare effettivamente la vita istituzionale del Paese, consentendo l’avvento del fascismo e la sua progressiva trasformazione in un regime dittatoriale.
Quando dunque il 1° gennaio 1948 entrò in vigore il nuovo testo costituzionale, esso aprì una fase del tutto nuova per il nostro Paese: ed il fatto che, a distanza di sessant’anni, quel testo continui a costituire la legge fondamentale del nostro Paese, pur tra difficoltà ed alterne vicende, è un elemento da sottolineare in senso positivo, per aver contribuito e contribuire a rendere matura la nostra, all’inizio assai fragile, democrazia.
Detto questo, un bilancio ancorché sommario di questo primo periodo di vita induce a sottolineare, com’è naturale, luci ed ombre.
Tra le prime, oltre a quanto detto, credo si debba rilevare come i principi enunciati nella prima parte della Costituzione siano stati sostanzialmente assimilati dal popolo italiano, e come essi informino pur tra alti e bassi la vita delle nostre istituzioni come dei cittadini. Pensiamo, ad esempio, al primato della persona ed al principio della dignità umana, architrave della convivenza civile, in quanto tale accettato ed affermato senza differenze pregiudiziali dalle varie componenti della nostra società. Così come il principio di eguaglianza di fronte alla legge, difficile da tradurre nella realtà delle cose e nelle diverse manifestazioni del vivere civile, ma da nessuno oggetto di contestazioni in via di principio, ed anzi da tutte le parti invocato come necessario contenuto del primato della persona, di ogni persona. Un altro esempio che si può richiamare e ricordare è quello del pluralismo sociale, che ha visto fiorire formazioni sociali di varia natura e dalle diverse finalità, e che complessivamente ha modellato una società nella quale all’individuo sono offerte numerose possibilità di vivere la propria dimensione sociale e di contribuire, per il tramite delle «comunità intermedie», al progresso della collettività.
Questi e gli altri principi, insieme al catalogo ricco e puntuale dei diritti e dei doveri dei cittadini, hanno trovato nella Corte costituzionale, prevista per la prima volta proprio dalla Costituzione (e non senza forti iniziali perplessità e contestazioni), l’organo capace di plasmarli e di inverarli nella realtà normativa italiana, nei primi anni ancora fortemente caratterizzata dall’ideologia fascista che l’aveva prodotta. La Corte è stata il baluardo primo della rigidità della Costituzione, anche con riguardo alle stesse possibili riforme costituzionali: come allorquando affermò che il contenuto essenziale dei diritti inviolabili non può essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente. E nei casi in cui le disposizioni della Costituzione non disciplinavano ambiti che non potevano neppure essere inimmaginati all’epoca della sua approvazione (si pensi ad esempio all’integrazione europea o alla diffusione del mezzo televisivo), la Corte ha saputo trarre dalle stesse principi capaci di offrire una regolamentazione coerente con lo spirito della Costituzione.
Più tormentata è stata la storia della seconda parte della Carta costituzionale, quella con la quale è disciplinata l’organizzazione della Repubblica. Sebbene infatti anche questa parte abbia subito, sino ad oggi, modificazioni numericamente e sostanzialmente limitate (salvo quella relativa alla modifica del Titolo V della Parte II, approvata con legge costituzionale n. 3/2001, la quale comunque ha modificato una decina di articoli, tutti relativi ai rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie locali), tuttavia è da ormai molti anni (troppi!) che su di essa si concentrano dibattiti e tentativi di riforma, che hanno prodotto l’indiscutibile effetto di indebolire, nel sentire dei cittadini, l’importanza della stessa Costituzione.
Il risultato di questa lunga stagione ha forse prodotto un indebolimento complessivo della Costituzione (c’è chi ha parlato di «Costituzione ferita»), ma soprattutto ha dato l’impressione che molte delle difficoltà causate dal sistema politico e dall’incapacità dello stesso di dare risposte adeguate ai problemi istituzionali più rilevanti (a partire dalla durata dei governi e dall’efficacia dell’azione parlamentare) fossero conseguenza non tanto di una cattiva azione politica, quanto piuttosto di regole costituzionali inadeguate. Impressione che, sebbene smentita in alcune circostanze, continua ad essere periodicamente alimentata dalle stesse forze politiche, così facendo della Costituzione un terreno di scontro politico: quando al contrario essa, in quanto quadro di regole disciplinanti la stessa dialettica maggioranza-opposizione, dovrebbe essere tenuta fuori dalla stessa. Per superare una volta per tutte questo rischio ricorrente, sarebbe auspicabile, a giudizio di molti, che si procedesse, mediante una riforma dell’art. 138, ad un ulteriore irrigidimento del procedimento di revisione costituzionale, ad esempio prevedendo l’obbligo di una maggioranza dei due/terzi degli aventi diritto al voto, senza possibili subordinate. Ciò avrebbe l’indubbio beneficio non tanto di rendere immodificabile la Costituzione, quanto di rendere possibili le modifiche solo quando l’esigenza sia evidente e largamente condivisa: così lasciando lo scontro politico fuori dal recinto delle regole da condividere.
Andreotti: «Eravamo consapevoli di lavorare per tempi lunghi»
di Riccardo Bigi
Per capire il valore della Costituzione italiana può essere utile ricordare il momento storico. Quello che, se il paragone non fosse improprio, in teologia si definirebbe il kairos, il «tempo di grazia», l’attimo in cui accade qualcosa di speciale.
Quando il 2 giugno del 1946, insieme al referendum tra monarchia e repubblica, viene eletta l’Assemblea che deve por mano alla nuova Costituzione, l’Italia è appena uscita da vent’anni di regime fascista e dai disastri della Seconda Guerra Mondiale. C’è la sensazione di qualcosa di nuovo che sta per nascere. C’è il senso di una grande responsabilità. È ancora viva l’eco del radiomessaggio che Pio XII pronunciò per la fine della guerra, il 1° settembre del 1944. «Un mondo antico giace in frantumi. Veder sorgere al più presto da quelle rovine un mondo nuovo, più sano, giuridicamente meglio ordinato, più in armonia con le esigenze della natura umana: tale è l’anelito dei popoli martoriati. Quali saranno gli architetti che disegneranno le linee essenziali del nuovo edificio, quali i pensatori che daranno ad esso l’impronta definitiva?». Parole che riguardavano la scena mondiale, ma che ben si adattavano anche alla situazione italiana. Il mondo cattolico, in particolare, si stava già preparando da tempo a questa sfida. Oscar Luigi Scalfaro, che sarà uno dei più giovani membri della Costituente, ha raccontato così quegli anni: «A un certo punto ci fu una grande spinta nel mondo cattolico per un’assunzione di responsabilità da parte dei laici nella vita civile. Ci fu offerta una preparazione formidabile sulla dottrina sociale cristiana. Ci preparavamo, studiando e discutendo, perché la Chiesa riteneva che dovessimo essere consapevoli dei compiti che ci aspettavano».
Tra gli eletti nell’Assemblea Costituente, a Firenze, ci fu anche Giorgio La Pira. Nelle parole che ha lasciato c’è la testimonianza del clima particolare di quegli anni: «Quando la Provvidenza mi sottrasse alla mia vita normale di meditazione e di studio e mi portò sugli scanni dell’Assemblea Costituente, io mi sono trovato nello stato d’animo di un architetto cui sia affidato il compito di costruire un edificio nuovo al posto di quello vecchio in parte o in tutto crollato».
Il più giovane, in quell’aula, era una persona destinata a ricoprire un ruolo da protagonista per tutti i successivi 60 anni di politica italiana. All’epoca aveva 27 anni ed era il presidente nazionale della Fuci (la federazione degli universitari cattolici). Si chiamava Giulio Andreotti.
Lei è stato il più giovane dei padri costituenti. Con quale animo affrontò questo impegno?
«Avevo avuto già, qualche mese prima, l’emozione dell’ingresso in questa aula piena di storia. Emozione che si rinnovò, con un misto di stupore e di preoccupazione, per il compito storico di partecipare alla Costituente».
In alcuni libri, lei ha raccontato i profili di quelli che ha chiamato i «nonni della Repubblica». Ma chi sono le persone che hanno dato l’impronta maggiore alla Costituzione italiana?
«I grandi nomi erano molti: da Orlando a De Gasperi. Ma anche tra i partecipanti meno noti vi erano figure esemplari, per la coerenza di vita e la dirittura morale».
Ai bambini si insegna che la Costituzione italiana è frutto di intesa tra tre grandi correnti di pensiero, quella cattolica, quella socialista-comunista e quella liberale. Nei fatti, come si concretizzò questa intesa? Oggi è ancora valida?
«Vi era la consapevolezza di lavorare per tempi lunghi. Questo consigliava la ricerca del massimo comune denominatore, mentre per il nostro tempo prevale quella del minimo comune multiplo».
C’è qualche episodio personale o curioso che ricorda di quei giorni?
«Avevo suggerito con entusiasmo un emendamento per assicurare ai cittadini la libertà senza limiti, stabilendo per gli stranieri la libertà regolata. Il nostro capogruppo (onorevole Gronchi) me lo fece ritirare, reputandolo reazionario».
La scheda
375 sedute per varare la nostra «Carta»
Il 2 giugno 1946 si svolsero contemporaneamente il referendum istituzionale che vide prevalere la repubblica (54%) sulla monarchia, e l’elezione dell’Assemblea costituente. La partecipazione al voto fu dell’89% (in Toscana del 91%). 556 i seggi, attribuiti con il proporzionale in 32 collegi elettorali. A livello nazionale la Dc ottenne il 35,2% dei voti e 207 seggi; il Partito socialista, 20,7% dei voti e 115 seggi; il Partito comunista, 18,9% e 104 seggi. L’Unione democratica mazionale (liberali) ottenne 41 deputati, con il 6,8%, il Partito repubblicano, 23 seggi, pari al 4,4%. Mentre il Partito d’Azione, nonostante un ruolo di primo piano nella Resistenza, ebbe solo l’1,5% e 7 seggi. In opposizione alla politica del Cln, la formazione dell’Uomo qualunque, che prese il 5,3%, con 30 seggi assegnati. La prima seduta della Costituente fu il 25 giugno 1946 a Montecitorio. I lavori dovevano terminare il 24 febbraio 1947 ma l’assemblea non verrà sciolta che il 31 dicembre 1947, dopo aver adottato la Costituzione il 22 dicembre con 453 voti contro 62. 375 le sedute pubbliche, di cui 170 furono dedicate alla discussione e all’approvazione della nuova Costituzione, che entrò in vigore il primo gennaio 1948.
Tra le altre modifiche costituzionali, ricordiamo:
9 marzo 1961, assegnazione di tre senatori ai comuni di Trieste, Duino Aurisina, Monrupino, Muggia, San Dorligo della Valle e Sgonico
9 febbraio 1963, sulle elezioni di Camera e Senato;
27 dicembre 1963, istituzione della regione Molise;
21 giugno 1967, estradizione per crimini di guerra;
16 gennaio 1989, (giurisdizione reati dei ministri previsti dall’articolo 96);
3 aprile 1989, referendum per confermare il mandato al parlamento europeo;
6 marzo 1992, revisione dell’articolo 79 sull’amnistia;
29 ottobre 1993, modifica all’articolo 68 (tutela dei membri del Parlamento)
22 novembre 1999, elezione diretta del Presidente e autonomia statutaria delle Regioni;
23 novembre 1999, inserimento dei principi del «giusto processo» nell’articolo 111;
17 gennaio 2000, modifiche articolo 48 per il voto degli italiani residenti all’estero (poi modificata il 23 gennaio 2001
3 ottobre 2002, modifiche alla XIII disposizione transitoria e finale per il rientro in Italia dei Savoia.
Un discorso a sé va fatto per le modifiche non ad un singolo articolo ma ad intere parti della Costituzione. Delle tre commissioni bicamerali, quella che arrivò più vicina alla meta fu istituita il 24 gennaio 1997 e presieduta da Massimo D’Alema. Al progetto di modifica si lavorò a lungo, ma alla fine mancò l’accordo per ratificarlo. Proprio negli ultimi giorni della XIII legislatura il centro-sinistra approvò una serie di modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione (ordinamento degli enti locali) che avrebbe dovuto mettere le basi per una riforma federalista dello Stato. La riforma, approvata a maggioranza semplice, fu sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001, dove raccolse il 64,2% dei sì ed entrò in vigore l’8 novembre 2001. Il centro-destra nella successiva legislatura elaborò un’ampia riforma di tutta la seconda parte della Costituzione (52 articoli modificati: elezione diretta del premier, riduzione dei poteri del capo dello stato, sistema monocamerale con voto di sfiducia solo della Camera, nascita del senato federale, riordino competenze tra stato e regioni…) che però, essendo stata approvata anche questa a maggioranza semplice (16 novembre 2005), fu sottoposta a referendum il 25-26 giugno 2006, e respinta dal 61,70% dei votanti (53,70% di affluenza).
I costituenti toscani