Cultura & Società
I 100 anni di Celina Seghi, gloria dello sci mondiale
Sulla porta dell’appartamento di Pistoia dove siamo andate a renderle omaggio e farle gli auguri, ci ha accolte con una stretta di mano e il suo sorriso, che è ancora quello reso celebre dal ritratto di Oliviero Toscani. Il sei marzo è la data di nascita di Celina Seghi, anno 1920; per un errore fu registrata l’otto: era destino che in qualche modo la «festa della donna» si legasse alla vita di una signora, quest’anno centenaria, che ha dato tanto allo sci italiano e allo sport al femminile.
Celina mantiene il fisico minuto che l’ha aiutata negli slalom: baricentro basso, gambe fortissime, talento infinito. Subito ci apre «la stanza dei tesori». In fondo all’elegante salotto, una porta a soffietto nasconde uno studio dove troneggia un pianoforte e le pareti sono coperte di scaffali pieni di coppe, trofei, targhe, oltre a un gran numero di foto di discese e di premiazioni, di montagne e di campioni che hanno vissuto con lei l’avventura dello sci eroico. Celina ha vinto la prima gara nel 1930; nel 1934 fu terza agli assoluti del Sestriere; nel 1937 divenne campionessa italiana juniores. In un arco di tempo che arriva fino al 1956 ha conquistato ventiquattro titoli italiani assoluti, ha battuto spesso Paola Wiesinger, nata nel 1907 e ha rivaleggiato con Giuliana Chenal Minuzzo, nata nel 1931. La guerra le ha tolto una parte notevole di carriera: ai Mondiali di Cortina del 1941 superò Christl Cranz in slalom, conquistando l’oro; vinse anche l’argento in combinata, ma i risultati non furono omologati perché alcune nazioni erano assenti per il conflitto in atto. Il nipote Silvano, che insieme ai fratelli e ai cugini dedica molto tempo alla zia, ha accennato a un procedimento in corso perché quelle vittorie le siano riconosciute. Quarta alle Olimpiadi del 1948 e del 1952, ha incorniciato il bronzo in slalom dei Mondiali di Aspen del 1950: racconta divertita le quattordici ore di volo verso l’America. Arrivati a New York, Zeno Colò si incantò davanti a un televisore, oggetto allora sconosciuto in Italia; lei entrò in una sorta di Fast food e si sorprese perché, inserite delle monete in una macchina, si aprivano cassetti dai quali trarre cibi. Nulla di paragonabile alle trasferte di inizio carriera, quando andare dall’Abetone in Austria o in Francia non era uno scherzo: treno e pullman erano i mezzi usati; niente cuccette. Gli atleti erano giovani dal modo di vita spartano: non c’erano gli sponsor, ma solo una grande passione per uno sport che consente di stare nella natura, di misurarti con gli altri, con se stessi e richiede testa, coraggio, tecnica, duttilità, grinta. Quest’ultima è la parola che Celina ha ripetuto spesso nel nostro incontro: ne aveva da vendere. A Sankt Anton nel 1949, per il Concorso del Kandahar, si fratturò una spalla in discesa, arrivando ugualmente al traguardo; il giorno dopo, con l’arto immobilizzato, si presentò al cancelletto di partenza dello slalom. Non solo: nella seconda manche si fermò il cronometro e fu costretta a ripetere la prova. Vinse la «K» d’oro come migliore combinatista. Nel 1950 arrivò prima in libera e in combinata; due anni dopo al Sestriere si aggiudicò di nuovo le prove del terribile Concorso e fece sua la «K» di diamanti, che ancora oggi accarezza con lo sguardo. È la prova della dolcissima caparbietà dell’unica sciatrice italiana che l’ha in bacheca.
«Vincevo sempre» dice, con un sorriso quasi di scusa. Quella sua facilità di vittoria era frutto di duri allenamenti, di intensa concentrazione. In casa Seghi ci sono i ritratti dei genitori di Celina. Si illumina nell’indicarmi sua madre: «Era un incanto, la mia mamma. Scherzosa, mi mandava a sciare. Mi diceva: “Vai con gli sci. Se ti diverti, sono contenta anch’io”. Allora le mamme tenevano spesso le figlie a casa, perché sciavano i maschi. Ma io andavo con loro e mi divertivo». Quei maschi spesso non digerivano la sua bravura. Mi racconta di un cane di famiglia, un sanbernardo, che le nascondeva gli sci e gli occhi le brillano.
Il fratello Gino è stato il suo allenatore, la sua ombra. Severo, rigido, quando la ragazza vinceva una gara, le diceva che non si doveva festeggiare troppo, ma concentrarsi subito sulla successiva. La dolcissima Celina, maestra ad honorem della Scuola dell’Abetone, quando ha messo gli sci ai nipoti ha usato quella stessa severità. Spirito libero, non le piacque l’esperienza dell’Accademia di Orvieto, l’Istituto femminile che in epoca fascista equivaleva all’Isef. «Troppo collegio»: così dice. E tornò ai suoi boschi e all’Abetone.
Finita la carriera sciistica, rimase fedele a se stessa, con la sua voglia di vivere, la sua curiosità. Si sposò nel 1970 con il dottor Fiorineschi: furono dieci anni felici, poi il medico morì prematuramente. Parlavamo di suo marito e mi ha commossa il gesto di Celina, che ha alzato la mano sinistra per farmi vedere la fede, dicendomi: «Lui è qui». È credente e non si è più risposata. Ha bensì dedicato cure alla famiglia allargata di nipoti e pronipoti, ha sperimentato cose nuove, come il volo in parapendio nel 2001. L’amore per la velocità l’ha resa tifosa della Ferrari.
Nella stanza dei tesori c’è un pianoforte. L’altra grande passione è la musica. Fino a poco tempo fa, chi andava a trovarla riceveva il premio di una sua esibizione. Un filmato in Internet ce la mostra mentre suona canzoni popolari alla fisarmonica. Ha amato molto il ballo, ma ha sciato fino a novantaquattro anni. Per il suo compleanno dieci anni fa si divertiva a spiazzare i giornalisti, invitandoli a seguirla per le piste. «In seggiovia si parla meglio»: era la scusa.
«Grinta, essere se stessa sempre, un pezzetto di cioccolata ogni tanto e una passeggiata quotidiana, andare a letto presto, mangiare con moderazione, tenere vivo il passato»: questa è la ricetta della sua lunga giovinezza.
Il nipote Silvano ha affermato che la zia amava il detto di Mohamed Alì: «Vola come una farfalla, pungi come un’ape». La splendida signora non ama lo snowboard e guarda con sospetto quei ragazzi vestiti con dei pantaloni «che sembra se la siano fatta addosso». Lei ha sempre usato colori vivaci per la sua tenuta da sci. La chiamavano «diavoletto rosso». La ricordo con una giacca a vento bianca e pantaloni viola, elegantissima, sullo skilift del Gomito.
Alla fine dell’incontro si è preoccupata che la stanza dei tesori venisse richiusa. Ha confessato di avere paura dei ladri. «Lì c’è tutta la mia vita», ha detto.
C’era una volta una ragazzina dell’Abetone, che volava sugli sci… e c’è ancora. Auguri e grazie di cuore, «topolino», che era il suo soprannome di allora.