Opinioni & Commenti

Halloween, la zucca vuota

di Franco Cardini

«Trick or treat»: «Dolcetti o scherzetti». È la frase magica con la quale – fino a ieri nelle città e nei paesi del New England, oggi in gran parte del mondo comprese Russia e India – torme di bambini vestiti da diavoletti, da scheletrucci, da streghine e da fantasmelli bussano di casa in casa teneramente mendicando piccolo doni e minacciando, in caso li si rimandi a mani vuote, ritorsioni anche infantilmente feroci, tipo pesticciare i fiori in giardino, far pipì sulla soglia di casa o legare un petardo alla coda del gatto domestico.

Il giocoso ma un po’ macabro carnevale americano d’autunno si è ormai fortemente affermato anche nella nostra Europa; e, da noi in Italia, è strano come certe comunità nelle quali circolano insistenti le parole d’ordine della tutela dell’identità e delle tradizioni – pensiamo alle regioni del Nordest – si siano adattate senza far una piega a una tradizione tanto lontana ed estranea rispetto alle nostre.

Certo, su tale lontananza, su tale estraneità, vale la pena di discutere un po’. Da più parti è stato notato come anche in paesi dalle tradizioni fino ad oggi cattolicissime, quali la Sicilia o il Messico, la festa liturgica di Ognissanti – e la solennità dei defunti, che le tiene dietro – è celebrata in modo sotto certi versi analogo al New England: maschere da teschio e dolcetti a forma di ossi umani venduti sulle bancarelle, ad esempio. Ma in Sicilia sembra che l’usanza risponda alla cristianizzazione di antiche festività greco-pagane, in Messico a quella delle solennità azteche delle divinità dell’oltretomba.

La storia dello Halloween newenglander (la parola è una forma contratta dell’espressione all hallows’ even, «la sera di Ognissanti»), pur avendo origini analoghe, è più complessa. Bisogna rifarsi al X-XI secolo d.C. e all’Europa celtica di quel tempo: larghe aree della Gallia ormai divenuta Francia e della Britannia ormai divenuta Inghilterra erano sì state invase da popoli germanici e soggette a una sistematica cristianizzazione, ma ciò non significava che gli antichi abitatori celti – in special modo in Irlanda, nel Galles e in Scozia – avessero rinunziato alle loro tradizioni. È più facile mutar religione, quindi cambiar divinità e sistema teologico, che non riti, culti e costumanze.

Nel mondo celtico pagano, che tra VI e III sec. a.C. era esteso dal Portogallo al Caucaso ma successivamente si era andato restringendo dalla Scozia e dalla Bretagna al corso del Reno, si era soliti organizzare l’anno secondo un calendario lunare che lo ripartiva in tre grandi stagioni: la primaverile-estiva tra marzo e giugno, l’estivo-autunnale tra luglio e ottobre e l’autunno-invernale tra novembre e febbraio. Tale ultima stagione iniziava con la festa di Samain, consacrata alla natura che si andava addormentando nel letargo della fredda stagione e dedicata al culto degli antenati. Si riteneva che nei primi giorni del novembre i confini tra vivi e morti si annullassero e che gli antenati tornassero alla loro famiglie, che li onoravano con offerte votive.

I missionari cristiani avevano lottato contro quei riti pagani: ma invano. I bravi contadini celti, divenuti intanto buoni cristiani, avevano mantenuto tuttavia le loro usanze per quanto andassero progressivamente perdendo memoria del significato delle cerimonie che pur continuavano a celebrare.

Spettò ai monaci di Cluny, commossi per tale fedeltà e convinti che il culto dei trapassati fosse in sé un bene, ma tuttavia decisi a spogliarlo dei residuali contenuti idolatrici, l’organizzare un tipico esperimento di quelli che gli antropologi definirebbero «acculturazione»: mantenere i sacrifici espiatorii in suffragio dei defunti, inquadrarli però in un contesto liturgico e santorale cristiano e dedicare quindi ai santi e ai morti i primi due giorni del novembre. Nacquero così, sul ceppo celtico ma con spirito cristiano, la festività di Ognissanti e la solennità memoriale dei morti.

I «Padri Pellegrini» inglesi e scozzesi – puritani e presbiteriani, quindi calvinisti – che nel Seicento colonizzarono il Nuovo Mondo, si portavano dietro la tradizione di Halloween, cioè d’Ognissanti: ma, in seguito alla Riforma protestante, avevano rinunziato a qualunque forma di culto dei santi e di ritualità. Per loro, quel lontano residuo pagano era soltanto una tradizione superstiziosa d’origine demoniaca. Ed ecco il carattere «trasgressivo», quasi diabolico, di quella celebrazione spogliata di qualunque sacralità pagana ma anche di riferimenti cristiani; ecco le «storie nere» che l’accompagnano, e che hanno dato vita a innumerevoli films, o fictions, o «giochi di ruolo» sul genere horror.

È quindi, a parte altre numerose considerazioni, abbastanza ridicolo che in un paese cattolico nel quale da oltre un millennio si celebrano le solennità avviate dai monaci cluniacensi a fini anzitutto missionari si accolga, «di ritorno», una tradizione che il rigorismo calvinista ha respinto nelle tenebre delle superstizioni e che associa un revival satanico a un background laicizzato e ateizzato.

Un nonsenso da combattere con tutte le forze, nel nome dell’ortodossia cattolica, della coscienza identitaria cristiano-europea, del buon senso e del buon gusto. I cattolici debbono piantarla di truccare i loro bambini da demonietti, da scheletrucci, da streghine e da fantasmelli. È necessaria al riguardo anche una rigorosa campagna di «pulizia dell’immaginario», di liberazione dal kitsch sadofunebre ormai troppo diffuso specie nel cinema e in Tv sull’onda dei cascami della cultura romantica passati attraverso il macabro alla Poe e alla Stocker. Tra 1° e 2 novembre, portiamo i nostri ragazzi e i nostri bambini a messa e a visitare i cimiteri, parliamo loro dei nostri cari che non ci sono più e dei quali essi probabilmente ignorano perfino i nomi: insegnamo loro a riallacciare di nuovo i legami che collegano tutti i figli di Dio nel nome della «Comunione dei Santi», un’espressione teologica tanto sublime quanto oggi dimenticata e fraintesa. E torniamoci sul serio, perdinci, alle nostre tradizioni; riscopriamola e tuteliamola davvero, perbacco, la nostra identità.

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