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Haiti: primi segnali positivi ma manca ancora acqua e cibo
La notizia delle dimissioni del premier di Haiti Ariel Henry, su pressione della comunità internazionale, "segna una svolta significativa perché la situazione non poteva che degenerare”.
Dopo un’altra notte di spari e violenza stamattina la capitale di Haiti Port-au-Prince si è svegliata in una calma apparente, seguita alla notizia delle dimissioni del primo ministro Ariel Henry, sollecitato dalla pressione della comunità internazionale. Il Paese è allo sbando a causa della violenza delle gang, che controllano gran parte della capitale, gli aeroporti e le frontiere terrestri. I capi delle bande e i partiti dell’opposizione avevano chiesto ad Henry di lasciare il potere (il suo mandato è scaduto), che detiene dal 2021, anno in cui è stato assassinato il presidente Jovenel Moïse. L’ex premier non è riuscito a rientrare ad Haiti di ritorno dal Kenya ed è ancora a Portorico. Ora lo sostituisce un presidente ad interim, Patrick Michel Boivert. Una riunione d’emergenza della comunità dei Caraibi, Caricom, ha infatti deciso un piano per stabilire ad Haiti una nuova autorità transitoria tramite la costituzione di un consiglio presidenziale con 7 membri votanti e due seggi senza diritto di voto (uno per la società civile e uno per la Chiesa); l’intervento della missione multinazionale guidata dal Kenya; un rafforzamento della polizia, presupposto per la realizzazione delle elezioni generali, che non si tengono dal 2016. Lo stato di emergenza è stato prorogato fino al 3 aprile.
“Sicuramente questa notizia segna una svolta significativa perché la situazione non poteva che degenerare”, commenta oggi al Sir Flavia Maurello, rappresentante Paese della Fondazione Avsi ad Haiti. Inoltre, come informa la cooperante, nelle ultime ore “la polizia è riuscita a riprendere il controllo del porto commerciale, che era stato attaccato negli ultimi giorni da alcune bande. C’erano vari container di merci che arrivano dall’estero e di armi, che la polizia aveva già sequestrato alle bande”.
“Qui la notte è stata abbastanza pesante – racconta Maurello dal quartiere di Petionville a Port-au-Prince -, ci sono stati tanti spari. Sparano tutta la notte ma non sappiamo dire bene se siano spari in termini di festeggiamento o altro. Questa mattina la città si è svegliata con una calma apparente. È tutto aperto, la circolazione ha ripreso, gli esercizi commerciali sono aperti. Questi per noi sono segnali di incoraggiamento”.
Un accordo sulla transizione. “L’incontro di ieri con il Caricoma in Giamaica penso sia servito anche a trovare un accordo per la transizione – osserva Maurello – In questo momento gli scenari sono diversi. Questo governo di transizione, o Consiglio dei 7, è sicuramente la strada che verrà percorsa. Non sappiamo dire cosa sia buono e cosa no per questo Paese. Speriamo in una transizione che possa permetterci di supportare la popolazione e che il Consiglio transitorio possa essere risolutore o deterrente rispetto al conflitto in corso. Ci auguriamo che la Chiesa possa avere un ruolo super partes”. Certo, ammette, “i segnali dei giorni scorsi sono stati molto preoccupanti: le rappresentanze diplomatiche hanno evacuato il personale. Però le Nazioni Unite, le Ong, il personale espatriato, i missionari, sono ancora qui. Siamo tutti in attesa di vedere una svolta. Ora vediamo nelle prossime ore che succederà. Siamo possibilisti”.
La situazione rimane invece molto critica nella parte bassa della città, dove Avsi ha alcune attività, nei quartieri difficili di Cité Soleil e Martissant. “Il nostro staff sta monitorando la situazione ed abbiamo riscontrato una serie di bisogni di base abbastanza inquietanti – spiega -. Manca acqua potabile, cibo e aumentano gli atti di violenza sulla popolazione. Siamo molto preoccupati per le nostre comunità.
Abbiamo bloccato le attività sul campo perché è troppo pericoloso. Ieri il nostro staff ha potuto fare solo alcune iniziative di supporto psicosociale con i bambini e i ragazzi. Purtroppo gli accessi a questi quartieri sono completamente bloccati e questo ci impedisce di portare beni di prima necessità. Quindi possiamo fare solo attività soft, in attesa di trovare la possibilità di portare i primi aiuti”.
“La popolazione è molto scoraggiata, così come i nostri colleghi haitiani”, prosegue l’operatrice umanitaria, abituata a lavorare in contesti di conflitto, come la Repubblica democratica del Congo e il Sud Sudan: “Qui sono anni che abbiamo il coprifuoco la sera. Si avverte un sentimento di abbandono da parte della comunità internazionale. Forse l’annuncio dell’arrivo di una forza militare, che non è ancora arrivata, ha creato delle aspettative. Una situazione che poteva risolversi non si è risolta”.
La preoccupazione della Chiesa di Haiti. Intanto ieri la stampa locale, prima delle dimissioni di Henry, ha diffuso una dichiarazione di monsignor Max Leroy Mésidor, arcivescovo di Port-au-Prince e presidente della Conferenza episcopale haitiana, che mette in guardia sul rischio di “una pericolosa deriva verso la guerra civile”. Nella nota mons. Mésidor rimarca che “le forze di polizia haitiane sono impotenti di fronte a gang ben armate che sono diventate un esercito organizzato” ed anche la Chiesa è diventata un target. Sono infatti stati tanti i sacerdoti e le suore rapite in questi ultimi anni. Le ultime ad essere rilasciate sono tre suore della Congregazione di San Giuseppe di Cluny e quattro dei sei religiosi dei Fratelli del Sacro Cuore rapiti lo scorso 23 febbraio. “Ci sono rapimenti ovunque…Ricchi o poveri, intellettuali o analfabeti, chiunque può essere rapito. È una dittatura, un flagello da combattere”. Anche gli stessi vescovi haitiani rischiano la vita, in particolare nelle zone controllate dalle gang a Port-au-Prince. Monsignor Pierre André Dumas, vescovo di Anse-à-Veau Miragoane, lo scorso 18 febbraio è rimasto gravemente ferito in un incidente di cui non si capiscono bene i contorni. E’ ancora ricoverato in un ospedale in Florida. “Cerchiamo di lavorare e di testimoniare insieme – prosegue monsignor Mésidor – ma non è facile. Dobbiamo portare la nostra croce e seguire Cristo, soprattutto in questo tempo di Quaresima”. “Io stesso – confida – non ho potuto visitare i due terzi della mia diocesi perché le strade sono bloccate”. Nonostante ciò, conclude, “il nostro popolo vuole vivere”.