Italia

Haiti a un anno dal sisma, la ricostruzione non decolla

di Patrizia Caiffa

Ad un anno dal terremoto che il 12 gennaio 2010 sconvolse Haiti con le sue 300 mila vittime e una distruzione immane, tanti sono ancora gli aspetti critici: tra questi, «la lentezza nella costruzione di alloggi, anche provvisori», per un milione di persone che vivono nei 1.200 campi e «la mancata rimozione delle macerie». Lo dice mons. Bernardito Auza, nunzio apostolico ad Haiti, che in questi giorni accoglie nella sua residenza di Port-au-Prince la delegazione vaticana guidata dal card. Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum. Il card. Sarah è ad Haiti per portare un messaggio del Papa (durante l’Angelus del 9 gennaio Benedetto XVI ha ricordato l’anniversario del terremoto) e un aiuto economico di 800.000 dollari per la ricostruzione di scuole e 400 mila dollari per la ricostruzione delle chiese. Ad Haiti il card. Sarah ha incontrato le comunità religiose, i vescovi, i seminaristi e i responsabili delle Caritas e delle Ong. Martedì scorso ha incontrato il presidente uscente René Preval e posato la prima pietra di una scuola da ricostruire con fondi della carità del Papa. E mercoledì, durante durante la messa di commemorazione, ha letto il messaggiod el Papa. Una celebrazione analoga si è tenuta anche a Roma, nella basilica di Santa Maria Maggiore, presieduta dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato.

Mons. Auza, quali i passi in avanti più visibili e quali i punti ancora carenti?

«I passi più visibili sono anche quelli che fanno apparire la situazione come se nulla fosse cambiato, ossia il fatto che più di un milione di persone vivono sotto le tende o all’aperto e sono ancora vive. Per me è una testimonianza della vastità del lavoro umanitario compiuto dalla comunità internazionale, dalle organizzazioni non governative e da tante organizzazioni religiose. Sembra paradossale, ma vedo la situazione così. Secondo me, i due punti più carenti sono la mancata rimozione delle macerie e la lentezza nel provvedere alloggi provvisori agli sfollati. Ma qui il problema dell’alloggio è molto complesso. Ad esempio, più del 70% di chi vive nei campi non possedeva né case né terreni, prima del terremoto. Vivere sotto le tende nella speranza che la comunità internazionale o lo Stato dia loro una casa è per loro una opzione migliore rispetto a quella di vivere altrove».Non è utopico pensare di poter dare alloggi ad un milione di persone?«Quanto tempo ci vuole per alloggiare così tanta gente? Forse non avremo quel tempo sine die. Per cui sono d’accordo che sarebbe utopico. Ci vorrebbero circa 300.000 case per togliere tutta quella gente dai campi. Ma anche senza dare alloggio a tutti, molti possono essere aiutati in altri modi: opportunità lavorative, microcredito, ecc. È molto più realistico e renderebbe protagoniste le persone».

La ricostruzione è ancora ferma. Quali ostacoli e quali suggerimenti?

«Gli ostacoli più grandi sono la carenza di quadri, ossia esperti e professionisti haitiani (l’85% dei professionisti haitiani è all’estero), la mancanza di fiducia della comunità internazionale nelle capacità del governo di poter gestire grandi progetti, le capacità limitate d’Haiti di assorbire enormi aiuti, la complessità del quadro legale, l’instabilità politica, la storica assenza dello Stato nella vita quotidiana della gente… Suggerimenti? Snellire la burocrazia (le dogane!), onestà nella gestione dei beni pubblici. Comunque, per risolvere questi problemi ci vogliono tempi lunghi».

Gli aiuti della comunità internazionale: pare che dei primi 5,3 miliardi stanziati nella riunione di New York sia rimasto poco o niente e che il 58% di 2,1 miliardi annunciati non siano mai arrivati. Le risultano queste cifre?

«Non nego né confermo, perché vi sono tante maniere di vedere i soldi spesi e vi sono tanti tipi di fondi e di aiuti. Ad esempio, quanti di quei soldi promessi sono in verità un debito enorme condonato? O erano già stati spesi prima di essere promessi? O sono stati spesi per operazioni militari ma poi conteggiati come “aiuti umanitari”? Quanto degli aiuti per Haiti sono invece rimasti nelle capitali e a New York? Inoltre, se guardiamo i progetti approvati dalla ‘Commission intérimaire pour la reconstruction d’Haiti’, la maggioranza non ha nulla a che fare con la ricostruzione delle strutture distrutte dal terremoto. Tra i 29 progetti approvati e finanziati nell’agosto scorso dalla Commissione, il 20% (circa 200 milioni di dollari) sono nel settore agricolo, un altro 20% per i salari e la formazione degli agenti della salute pubblica, ecc. Mentre un progetto di rimozione delle macerie di appena 13 milioni di dollari non è stato finanziato! È paradossale, ma per chi conosce Haiti non è una sorpresa».

Come valuta l’operato complessivo della cooperazione internazionale?

«L’operato della comunità internazionale, in particolare delle organizzazioni non governative, viene criticato per spendere miliardi con risultati che quasi non si vedono o per sé stesse. C’è chi ritiene che le Ong abbiano provocato la mancata responsabilità dello Stato e del Governo, perché con la loro vasta presenza sostituiscono le istituzioni. Mi domando, però, se ‘sia nato prima l’uovo o la gallina’. Le Ong fanno quello che dovrebbe fare lo Stato se non fosse assente, però al tempo stesso lo Stato non si sente obbligato a dare servizi già forniti dalle Ong. È un falso argomento. Le Ong lavorano anche nei Paesi più ricchi e meglio organizzati. Tanto più è necessario ad Haiti, dove manca tutto. Dico sempre al presidente della Repubblica, agli ambasciatori e alla comunità internazionale, che questo dibattito è salutare e bisogna promuoverlo, ma non bisogna mai puntare solo il dito anziché migliorare la collaborazione tra tutte le forze positive, nazionali o internazionali».