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Guerra e indulto, i nuovi farisei

di Romanello CantiniAppena cinquanta giorni fa il Papa parlava alla Camera con un discorso interrotto da ventidue applausi e seguito da una coda interminabile in cui ministri e parlamentari, politici di ieri e di oggi, si affollavano per eseguire un inchino o un bacio dell’anello più o meno riuscito. In quella occasione, come in tante altre, le lodi per il discorso del Papa furono pressoché unanimi e spesso entusiaste. Tutti o quasi si dichiararono «emozionati» e «commossi» con due termini ormai stereotipati che sono cerimoniosi, ma anche effimeri e poco impegnativi. Va da sé che per molti politici i discorsi del Papa sono una sorta di self-service da cui si prende solo quello che più ci piace cercando di non rompere troppo la dieta. Nel retrobottega dell’omaggio rimangono le riserve occulte o la sostanziale indifferenza dimostrata, ad esempio, dentro e fuori d’Italia, alla preparazione di una guerra che sembra passare sulle parole del Papa come acqua sul vetro.

Il Papa parla contro la guerra, per la clemenza nei confronti dei carcerati, per l’umanità nei confronti dell’emigrazione, per l’accoglienza alla vita, per una politica della famiglia, per una scuola libera, per una identità cristiana nelle radici dell’Europa, per una iniziativa coraggiosa nei confronti del Terzo Mondo, per un intervento attivo nel dramma del Medio Oriente. All’indomani dell’applauso e dell’omaggio plateale alle sue parole nulla o quasi nulla segue poi nei fatti.

E allora si ha la sgradevole impressione che quell’omaggio sia soprattutto un rito formale, una corsa ad iscriversi nel club politicamente redditizio degli amici del Papa, una ambizione frettolosa per entrare nel riflesso di luce di una grande figura carismatica, uno sfruttamento virtuale di grandi eventi di massa a proprio uso e consumo magari con la speranza di conquistare o di non perdere qualche voto in ciò che rimane nel magro orticello del cosiddetto mondo cattolico.

Se così fosse, rispetto a questi ossequi più ipocriti che convinti, viene quasi da rimpiangere il laicismo grezzo e brutale di una volta quando l’opposizione al Papa era irriverente, talvolta perfino becera e blasfema e tuttavia aperta e autentica. Oggi invece nella melassa delle lodi convinte o di maniera, dei sì a parole e dei no nei fatti, non riusciamo più nemmeno a distinguere l’obolo vero e l’obolo falso. Persino nell’espressioni più encomiastiche ci viene il sospetto che esse nascondano il distacco anche quando sembrano esprimere entusiasmo. Forse quando si dice «discorso bello» si vuol far intendere troppo bello per essere vero. Forse quando si dice «discorso alto» si intende troppo al di sopra dal mondo così com’è per essere applicabile.

Sia chiaro che nessuno è obbligato ad obbedire al Papa dovunque, specialmente se non credente e in particolare in un paese in cui i cattolici sono ormai, a detta di molti, una minoranza. Ma in questo caso il precetto evangelico del sì e del no corretto e leale dovrebbe valere per tutti, laici e cattolici. Perfino Sturzo durante la prima guerra mondiale ritenne opportuno spiegare apertamente il suo interventismo a fronte del «pacifismo» di Benedetto XV.Quel che soprattutto disturba e in fondo offende è questo mostrarsi devoti senza convinzione e senza determinazione, questo scollamento farisaico fra le parole e le opere, questo usare il Papa a fini propri secondo la millenaria pratica della religione come «instrumentum regni». Era il Machiavelli che insegnava al principe e mostrarsi religioso anche se era miscredente a perfino Voltaire andava regolarmente a messa nel suo castello per non perdere autorità sui suoi contadini. Ma lo stesso Lutero ci ricordava che ogni atto di devozione senza la fede ci sarà imputato come il peggiore dei peccati.