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Guerra all’Iraq. In Israele e Palestina la ferita peggiore

Si diceva, un tempo, che l'inizio della pace coincidesse con la fine della guerra. Già problematica allora, poiché ogni guerra ha sempre lasciato dietro di sé una scia di problemi, l'affermazione oggi diventa addirittura priva di senso. La guerra, una volta conclusa sul campo, è assai probabile prosegua lungo percorsi distinti ma anche complementari: a) lo sconquasso mediorientale con il tentativo, che si intravede, di voler disegnare una nuova geografia politica; b) il terrorismo che si alimenterebbe, nei confronti dell'Occidente, dal risentimento di una società arabo-musulmana che i governi moderati avrebbero difficoltà a contenere. DI PIER ANTONIO GRAZIANI P. Ibrahim da Betlemme: «Qui tutti hanno paura»

di Pier Antonio Graziani

Si diceva, un tempo, che l’inizio della pace coincidesse con la fine della guerra. Già problematica allora, poiché ogni guerra ha sempre lasciato dietro di sé una scia di problemi, l’affermazione oggi diventa addirittura priva di senso. La guerra, una volta conclusa sul campo, è assai probabile prosegua lungo percorsi distinti ma anche complementari: a) lo sconquasso mediorientale con il tentativo, che si intravede, di voler disegnare una nuova geografia politica; b) il terrorismo che si alimenterebbe, nei confronti dell’Occidente, dal risentimento di una società arabo-musulmana che i governi moderati avrebbero difficoltà a contenere.

Che fine possa fare la questione israelo-palestinese nello sconquasso mediorientale, immaginabile di fronte a possibili nuove vampate di terrorismo, non è possibile dire oggi come oggi. Si può solo sperare che, se Saddam fa partire una provocazione, Sharon non risponda. Quel che si vede già ora, a occhio nudo, è che i due pericoli di cui diciamo sono tutt’altro che ipotetici. Se l’icona di Saddam Hussein, in particolare, dovesse essere portata in processione con quella di Arafat, dal Cairo a Damasco, i risentimenti che già si avvertono anche in aree come la turca, sino ad oggi docile all’Occidente, potrebbe trasformare la stessa vittoria sul campo degli anglo-americani in uno scontro di civiltà. Se sul campo aperto la sperequazione dei mezzi a disposizione è quella che tutti vedono, governi moderati o no che abbiano gli arabo-musulmani, il ricorso al terrorismo come arma impropria ma disponibile anche per chi non ha mezzi, potrebbe diventare più esteso nonché endemico.

Quello che non vuole capire questo tempo che viviamo, nonostante quel che è capitato nel secolo appena concluso, è che i problemi della politica si risolvono con la politica anche se questa ha sentieri difficili. In Israele e in Palestina, sinora, la politica è stata confinata nell’impotenza. Quella americana compresa. Dal tempo in cui Reagan vide travolto il suo piano (crisalide di uno stato palestinese) dall’invasione israeliana del Libano nel 1982; dalla prima guerra del Golfo che vide Bush padre assumere l’impegno solenne di mettere le cose a posto per consentire la grande coalizione contro Saddam che aveva conquistato il Kuwait; all’impegno più evanescente assunto oggi da Bush figlio: non è che si tratti di precedenti confortevoli né di impegni molto sicuri.

L’impegno di Bush figlio, al momento, non è stato neppure registrato al Quartier generale dell’Autorità nazionale palestinese e probabilmente neppure dal governo israeliano; da una parte le delusioni subite, dall’altra la convinzione testarda di poter risolvere il problema imbrigliando una entità palestinese, modesta e in compenso anche frastagliata, entro una tolleranza a fisarmonica.

Eppure gli americani per conto loro sanno, ma dovrebbe saperlo anche il governo Sharom, che proprio la guerra in Iraq, una volta conclusa, imporrebbe una soluzione almeno più dignitosa. E neppure perché alcuno si debba per forza sentire generoso ma perché, se la guerra dovesse proseguire in altra forma e con altri mezzi ( e la probabilità che capiti va messa nel conto) la solidarietà araba nei confronti dei palestinesi, divenuta rarefatta negli ultimi tempi al livello dei governi, si risveglierebbe dal basso. Il governo Sharon, ora come ora, non sembra all’altezza dei problemi. Il programma con il quale ha vinto le elezioni e la maggioranza parlamentare, che comprende un partito di centro indefinibile e partiti di destra radicale, al momento non danno adito a molte speranze. La situazione di stallo, con l’endemico stillicidio di morti e distruzioni, non può essere smossa (anche questo si ripete sino alla nausea ma di meglio non c’è) se gli americani in primo luogo ma anche gli europei stanno a guardare. Ma se in Iraq, un Saddam Hussein alle strette dovesse indirizzare qualche missile verso Israele e questi rispondesse con l’atomica? L’atomica, a meno di impazzire del tutto, ancorché tattica, troverebbe sul suo cammino anche americani e inglesi. Sì perché il «fall out», a differenza delle bombe sganciate dagli aerei, non è affatto intelligente. Da Betlemme il francescano padre Ibrahim Faltas: «Qui tutti hanno paura. Le città sono città morte» Raggiungiamo telefonicamente padre Ibrahim Faltas a Betlemme nel giorno dell’Annunciazione. Le città palestinesi, dall’inizio della guerra, sono chiuse. Dai tempi dell’assedio alla Basilica della Natività, il frate francescano è il punto di riferimento della stampa di tutto il mondo.

Padre Ibrahim, siete riusciti stamani ad andare a Nazareth per la festa dell’Annunciazione?

«Ci avevano concesso dei permessi, ma sono andati in pochi. Oggi fra l’altro fa freddo e piove».

Ma la città è chiusa?

«Sì, è per questo che avevamo chiesto i permessi. Per fortuna almeno qui a Betlemme non c’è il coprifuoco. La nostra scuola è aperta. La città è tranquilla».

Però, non si entra e non si esce.

«Sì, come l’altra volta durante tutto il periodo della Guerra del Golfo».

E questa volta, come vivete la guerra in Iraq?

«Qui tutti hanno paura che da un momento all’altro possa succedere qualcosa e soprattutto hanno paura delle conseguenze che questa guerra avrà qui in Terra Santa».

Nell’immediato c’è più paura dei missili iracheni o di una ripresa del terrorismo in risposta all’appello di Saddam alla «guerra santa»?

«Paura un po’ di tutto: di un bombardamento iracheno come di una ripresa degli attentati o di una rappresaglia contro il popolo palestinese. C’è paura, non c’è tranquillità. Anche il popolo israeliano ha paura. Non trovi quasi nessuno nemmeno per le strade delle loro città. I pochi che trovi in giro camminano con le maschere antigas in mano».

A Gerusalemme, com’è la situazione?

«Nella parte israeliana la situazione è come nelle altre città israeliane. Ma è lo stesso anche nella parte araba: non c’è turismo, non ci sono pellegrini. Tutte le città della Terra Santa in questo momento sono città morte».

A.F.