Lettere in redazione
Guerra al terrorismo e «danni collaterali»
Nella mia memoria di bambino è rimasto il ricordo di mio nonno durante la guerra. Quando i soldati tedeschi si fermavano a bivaccare nel nostro cascinale, a caccia di partigiani, il nonno, uomo giusto e pacifico, raccoglieva le donne in una stanza al piano terra e si ritirava con me al primo piano per la notte. Dopo avermi messo a letto, prendeva posto su una sedia in un angolo della stanza. Davanti a sè teneva pronta, in bell’ordine, una serie di coltellacci da cucina. Grazie al Cielo non ebbe mai a servirsi di quei coltelli, ma senza volere mi fece conoscere l’orrore della guerra, che può distruggere in chiunque ogni traccia di umanità. Come faccio oggi a condannare il kamikaze, o il soldato che non risparmia il nemico indifeso, o infierisce sul cadavere di chi un attimo prima avrebbe potuto ucciderlo? Io non condanno i singoli gesti, né mi chiedo quali siano i più crudeli; condanno la guerra, ovunque e sempre.
A Toni dell’Olio, che esprimeva analoghi pensieri pacifisti, un «grosso maestro di pensiero» dei nostri tempi ha chiesto polemicamente se i terroristi debbano essere contrastati a sputi in faccia. Molti sostengono infatti che a volte la guerra è necessaria, che occorre eliminare il terrorismo, che in certi casi si è costretti addirittura ad usare la violenza, anche a costo di mettere in conto i prevedibili «effetti collaterali» (leggi: vittime innocenti) per contrastare, o magari per prevenire mali peggiori. Sinceramente non riesco a immaginare catastrofe più nera di un bambino innocente che perisce in un bombardamento. Forse se ne fa una questione di distanza, di quantità, di probabilità, criteri a mio avviso poco adatti a influire sulle scelte morali di una persona o sulle opzioni politiche di un governo che aspirasse al mio consenso. Mi ripugna accettare una dottrina che pianifichi catastrofi certe, ma lontane, e a spese di altri, pur di scongiurare danni (incerti) dietro l’uscio di casa.