Italia

Gli inguaribili mali della Rai

di Franco CardiniQuesta della Rai «nella bufera», come si usa melodrammaticamente dire, ricorda proprio la Novella dello Stento che – diceva la mi’ poera nonna – «la dura tanto tempo e la ‘un finisce mai». I connotati del dramma, talora vicino alla tragicommedia, variano comunque nel tempo. Ma ha comunque caratteri di inedita originalità la crisi aperta dalla riunione di giovedì 21 novembre scorso, che ha visto agire un Consiglio di Amministrazione ridotto a soli due membri su cinque (il presidente Baldassarre e il consigliere Albertoni, mentre il terzo consigliere «di maggioranza», Staderini, era assente e avrebbe in seguito giustificato la sua assenza come autosospensione; e gli altri due, Zanda e Donzelli – la «minoranza»–, erano ormai dimissionari).Il CdA del 21 ha deliberato in presenza del Direttore generale Saccà, che comunque non vi appartiene; e ha varato un pacchetto di nomine, a onor del vero importanti fino a un certo punto e tutt’altro che omogenee sul piano politico (a Rai-Cinema è andato Franco Iseppi, peraltro ottimo professionista, su posizioni notoriamente vicine alla sinistra cattolica, gradito a Ppi e a Ds).

È comunque un fatto che raramente prima del 21 novembre si era assistito a una crisi del CdA Rai così rigorosamente scandita dalle aree d’influenza e d’appartenenza politica. Baldassarre è esplicitamente sostenuto da An, il partito del Ministero delle Comunicazioni Gasparri, ed è in una posizione di alleanza alquanto agrodolce con Saccà, sostenuto da Forza Italia; il consigliere Albertoni è uomo organico alla Lega (ed è stato assessore regionale leghista in Lombardia). Ne deriva un’alleanza «di ferro», per il momento, tra An e Lega, notoriamente vicine anche su altri temi (si pensi alla celebre legge detta «Bossi-Fini») e sull’orlo della collisione su altri ancora (la «devolution»).

È naturale che An e Lega premano perché questo CdA, che l’opposizione vorrebbe veder esautorato immediatamente, prosegua il suo mandato anche se ridotto nei suoi membri. La cosa, già giuridicamente parlando discutibile (e Buttiglione non ha esitato a tacciare da «irresponsabili» i firmatari delle nomine del 21 scorso, fatte in circostanze di sostanziale minoranza e di probabile illegittimità) è diventata insostenibile con le dimissioni anche del consigliere Staderini, che rappresenta l’Udc e più specialmente il Presidente della Camera Casini. A dimostrazione di una frattura tra l’Udc e An, che si estende anche ad altri temi, come quello dell’indulto. Forza Italia, «titolare» della Direzione generale attraverso Saccà, gioca per il momento il ruolo del paciere: e tanto Berlusconi quanto Pera si comportano di conseguenza, non è dato di sapere con quanta convinzione. L’opposizione, naturalmente, grida all’illegittimità palese (il che è discutibile) e all’arroganza e alla protervia (il che è difficilmente negabile).

Quanto al Ministro Gasparri, la sua posizione è formalmente corretta: le nomine del CdA non sono affar suo, non sarebbe nelle sue mani che eventuali dimissionari rimetterebbero il loro mandato. Comunque, a questo punto Pera e Casini, ai quali come Presidenti dei due rami del Parlamento spetta ai sensi della normativa avviata nel 1993 la nomina del CdA Rai, potrebbero reintegrare i consiglieri dimissionari e rimettere in tal modo il CdA nelle condizioni di funzionare in modo formalmente corretto.

Un esautoramento appare molto improbabile; più probabili le dimissioni dei due consiglieri ancora in carica, Presidente compreso, ma per questo occorrerebbe senza dubbio un accordo fra i partiti della maggioranza. Forza Italia appare abbastanza neutrale e disinteressata (il Direttore generale non è direttamente né immediatamente coinvolgibile nella crisi, e potrebbe addirittura venir confermato da un nuovo CdA); An e Lega sono contrarie al cambio della guardia e lo resteranno se non otterranno garanzie dai due Presidenti del Parlamento a proposito del nuovo CdA; l’Udc sembra contrariata dagli ultimi fatti e orientata a far cadere Baldassarre e quel che rimane del suo apparato. In questo caso, si avrebbe un nuovo CdA «tutto interno alla Rai», tutto di «tecnici», sia pur «graditi» alle varie forze politiche secondo l’abituale tradizione lottizzatrice? Qualcuno lo ritiene possibile; qualcuno altro lo considererebbe opportuno.

Non nascondiamoci il fatto che il momento è delicato anche a un livello che va al di là di quello aziendale: Rai e «Devolution» potrebbero rivelarsi – commentano alcuni osservatori – due bucce di banana sulle quali far scivolare governo e maggioranza. E non sarebbe escluso che, se ciò dovesse accadere, la trappola scatterebbe proprio per volontà di un Presidente del Consiglio poco disposto ad accettare la prospettiva di veder calare i sondaggi, per il momento ancora a suo favore. Berlusconi preferirebbe elezioni anticipate a una prospettiva del genere: elezioni che molto probabilmente vedrebbero un rafforzamento di Fi, ma a drastiche spese di An e forse anche della Lega.

Una volta di più, le cose della Rai sono campo di battaglia e cartina di tornasole di questioni in realtà politiche. Due sono i mali cronici dell’azienda: che potrà forse morirne, ma dai quali è difficile che essa riesca a liberarsi. Il primo è la lottizzazione, che tutto sommato è l’altra faccia del pluralismo in una realtà nella quale il servizio pubblico è da troppi anni feudalizzato ai partiti: una deviazione che appare irreversibile, dal momento che ormai dal nostro paese il senso dello stato sembra essere scomparso e i nominati a cariche pubbliche sono usi a far non già il pubblico interesse, bensì il gioco dei loro padrini. Il secondo è la dipendenza dell’assegnazione dei budgets – legati alla raccolta pubblicitaria – dal gioco del tutto virtuale della «audience», misurata arbitrariamente, ancorché sistematicamente, sulla base di complessi computi statistici condotti da organizzazioni specialistiche. Poiché l’«audience» premia programmi di basso profilo culturale, è ovvio che i direttori di rete non abbiano alcun interesse a incentivare la loro qualità, col rischio di perdere ascolti e di vedersi postposti nell’assegnazione dei budgets ai loro colleghi e concorrenti. La Rai, all’interno delle tre reti, fa concorrenza a se stessa: e ciò è il fondamentale motivo del crollo qualitativo dei programmi.

Usciremo mai da questo meccanismo diabolico? No, in quanto l’idea di una rete Tv di sola cultura e informazione, libera dalla pubblicità e pertanto dal ricatto dei «budgets» e sostenuta dalle sole risorse pubbliche, sembra essere tramontata. Semmai, l’incentivazione pubblicitaria e la privatizzazione ci libereranno dal cànone. Ma sarà il definitivo tramonto di una Rai di servizio pubblico. E cadrà allora ogni possibilità d’un controllo trasparente della qualità dei programmi e dell’obiettività dell’informazione. La liberalizzazione, e con essa la distruzione dello stato, porteranno probabilmente a breve scadenza nelle nostre case anche questi regali.

Dovremo dare allora un addio a qualunque illusoria prospettiva d’un’informazione equa e obiettiva. E i programmi di buon livello culturale? Forse: ammesso che li richieda e li imponga l’opinione pubblica, cioè la volontà dei consumatori. Il che, visto il livello della società civile italiana, è prospettiva praticamente disperata.