Cultura & Società
Gli ebrei livornesi e i segreti del Bagitto
di Elena Giannarelli
Si chiamava bagitto e già sul nome i pareri sono discordi. Per alcuni la parola deriva dal castigliano «hablar bajito», parlare a bassa voce, sottovoce, ed indica una lingua segreta. Per altri, sempre con la stessa etimologia, sarebbe il linguaggio basso, l’idioma di tutti i giorni, quello che si parlava al mercato. Comunque sia, è stato il modo di esprimersi quotidiano degli Ebrei livornesi dal Settecento alla Seconda Guerra Mondiale. Cantilenante, con un suo tipico accento, era caratterizzato da scambi di vocale e di consonante e dall’italianizzazione di parole ebraiche. Così fra via Buontalenti e Piazza Cavallotti, «levente» voleva dire «valente»; «aklare» indicava «mangiare» (da «akhal»), «ngannaveare» si usava per «rubare», «inzekkenire» per «invecchiare» e via discorrendo. E ci fu anche una produzione scritta in quella lingua, legata ai nomi di Mario della Torre, Cesarino Rossi, Guido Bedarida; addirittura Giovani Guarducci se ne servì per fare satira contro gli Ebrei. Questi nella città labronica conoscevano l’ebraico antico dei testi sacri, il portoghese come lingua ufficiale, lo spagnolo sefardita come idioma letterario e per le epigrafi, l’italiano, anzi il toscano, o meglio il livornese e appunto il bagitto. Una simile babilonia di lingue testimonia una ricchezza culturale grandissima, che fa del porto mediceo un luogo privilegiato della presenza ebraica in Italia.
In questi giorni Fabrizio Franceschini, storico della lingua italiana alla Facoltà di Lettere di Pisa, ha comunicato di aver realizzato, insieme al suo allievo Alessandro Orfano, un archivio sonoro teso alla conservazione di questo interessante reperto di archeologia linguistica. La ricerca si è svolta proprio fra i banchi degli ambulanti, appartenenti ad antiche famiglie da sempre dedite al commercio.
Il materiale è stato raccolto su un cd dal titolo «Colsi ‘l bagitto quando si spargeva», edito dalla Comunità ebraica della città. Espressioni, modi di dire, ma soprattutto intonazione e accenti sono stati fissati, elementi preziosi che rischiavano di scomparire per sempre. Anche il bagitto non si è sottratto a quella ironia tutta particolare che è caratteristica dell’essere di Livorno: pare che durante il fascismo si siano sviluppate espressioni in codice in quella lingua.
Se fra i banchi del mercato si sentiva dire «Arriva Tarzani» si doveva stare particolarmente attenti. Chi poteva essere «Tarzani» se non una guardia, un nemico, il delegato di polizia in persona? Certo, la radice ebraica è chiara: «tapsanim» si ricollega a «tapas», afferrare, prendere in custodia, ma quel nome suonava singolarmente simile a quello dell’uomo scimmia. Ed affiorava una punta di divertimento perfino nella situazione di pericolo.