Promosso dal circolo culturale Agorà, il dibattito ha visto intervenire il professor Pierangelo Mazzeschi ed il professor Marco Della Ratta, autori di un volume dedicato al grande affresco di Piero, dove si dà un’interpretazione nuova ed interessante dell’opera.In particolare si è cercato di far emergere quello che è il rapporto tra l’opera, l’autore ed il popolo di cui il pittore stesso si sentiva parte. La grande genialità di Piero sta proprio nello stretto rapporto con il popolo, in particolare quello del Borgo che lo ha generato e da cui torna spesso per avere nuove ispirazioni, assenti invece nelle numerose corti in cui viene chiamato a lavorare. Questo stretto legame si riflette nel suo lavoro dedicato alla leggenda della Vera Croce, in cui le città che fanno da sfondo alle scene, sono proprio quelle che il popolo, assieme a Piero, può riconoscere come familiari, come proprie. Così Roma viene rappresentata in modo molto simile alla Valtiberina, con il Tevere che ancora è solo un piccolo fiumiciattolo, perché è così che il popolo l’ha sempre visto; così la Città Santa diviene Arezzo, perché quotidianità e santità debbono essere la stessa cosa.Elemento immancabile in ogni scena è la Croce, che da quando è ancora semplice legno proveniente dall’albero cresciuto sopra la tomba di Adamo, passando per l’annunciazione a Maria, per il sogno di Costantino prima della battaglia con Massenzio ed il suo rientro nella Città Santa nelle mani del re cristiano Eraclio, rappresenta ciò che fa mutare la storia degli uomini, a patto che questi siano disposti a portarne il peso sulle proprie spalle. La storia della Croce per questo giunge con un’attualità immutata fino ad un’epoca come la nostra in cui, l’uomo sembra aver sempre più voltato le spalle alla Croce, rifiutandone il peso e fuggendo così da ogni responsabilità. E ancora una volta emerge come Piero della Francesca sia profondamente unito alla sua terra e in particolare alla Valtiberina.Lorenzo Canali