Toscana

Givone, «Non siamo grilli parlanti»

DI ANDREA FAGIOLI

Professor Givone, da cosa nasce questo ritorno degli intellettuali nell’agone politico?

«Nasce da un senso di disagio, ma non si tratta di un progetto che si possa riconoscere come tale, preparato con una riflessione approdata al ritorno degli intellettuali nell’agone politico. Se la presenza degli intellettuali, in passato, era determinata dell’ideologia, di destra o di sinistra, adesso non mi pare che si possa dire la stessa cosa, ovvero che è l’ideologia a spingere gli intellettuali ad impegnarsi in politica».

Ma se non è l’ideologia, cos’è che vi spinge?

«Ribadisco: non è l’ideologia. Gli intellettuali hanno semplicemente raccolto la voce che viene dalla società civile e che i politici, da tempo, non sanno più ascoltare. Tutto qui».

E il 24 gennaio, la marcia dei 10 mila per le strade di Firenze, sotto una pioggia battente….

«Il 24 gennaio abbiamo detto: usciamo dalle aule universitarie, andiamo nelle piazze. Ma lo abbiamo detto così, con leggerezza, con l’autoironia di chi ha passato metà della vita nelle aule universitarie dove è difficile fare entrare la realtà. Abbiamo detto: apriamo le finestre, anzi: facciamo qualcosa di più, andiamo noi fuori».

Tutto, dunque, è partito dal capoluogo toscano?

«Lo sa che ho questo sospetto? È una cosa che avrei detto con molta prudenza, con titubanza, ma offerta così, con questa domanda, sono proprio tentato di dire sì».

Com’è nata quella manifestazione?

«In modo abbastanza strano. È nata da un gruppo di intellettuali che pensava di essere minoranza all’interno dell’Università, ma soprattutto nella società. Per questo non pensava di trascinare per le strade di Firenze 10 mila persone. Questo gruppo di intellettuali il 24 gennaio si è trovato al centro di un movimento molto, ma molto più grande di quello che immaginava. Tanto è vero che sono seguite onde di ritorno: due giorni dopo a Roma, poi a Torino, a Milano, poi di nuovo a Firenze, ancora a Roma…. Non dico che queste cose siano legate tra loro come una sorta di gioco dei mattoni per cui se cade uno cadono tutti gli altri. Dico soltanto che gli intellettuali hanno raccolto e dato voce a qualcosa che i politici ormai da anni ignoravano».

Ma la gente comune, la cosiddetta «base», vi segue convinta o vi guarda con diffidenza?

«Un po’ di diffidenza la si deve mettere in conto. Qualcuno può avere il timore che i professori vogliano fare lezione, che tornino a fare quello che facevano una volta e non vogliono fare ora, cioè i grilli parlanti. Il timore ci può essere, ma la sostanza della cosa va in tutt’altra direzione. Gli intellettuali, lo ripeto, raccolgono la voce della “base” e non viceversa».

Allora, non vi sentite assolutamente «orfani», come qualcuno invece ha detto e scritto?

«Nel modo più assoluto. Chi dice questo, tende a leggere il tutto come un ritorno al passato. E invece non c’entra niente. La politica mi ha sempre interessato, ma mai l’ho fatta in modo attivo. Adesso che ho partecipato a questa “nascita”, vi assicuro della totale casualità. Noi stessi non credevamo a quello che stava avvenendo. Questi sono i sentimenti che hanno caratterizzato l’inizio di questo movimento».

Non vi lascerete tentare dalla creazione di qualcosa di più strutturato oppure di porvi alla guida di un movimento o addirittura di un partito?

«Spero proprio di no. Se dovesse succedere, sarebbe una deriva che va contro le intenzioni che guidano questo momento. Sono intenzioni di studio, di lavoro critico su ciò che sta accadendo. Vogliamo offrire un contributo intellettuale alla società civile. Nient’altro che questo».

Professore, concretamente, cosa pensate di fare per l’Italia?

«Ce lo siamo chiesti e la risposta è stata questa: dobbiamo fare bene il nostro mestiere di professori e di intellettuali. Allora, questa forza che si è per così dire liberata, non la possiamo utilizzare in forme che non sono le nostre, cioè mettendoci a capo di un movimento o sostituendoci ad una leadership politica. Tutto questo non ci appartiene. Quello che noi possiamo fare ed abbiamo fatto è un laboratorio di discussione aperta, dove applichiamo le categorie etiche, filosofiche, politiche o storiche come strumenti critici per capire che cosa sta avvenendo. Una elaborazione che portiamo fuori dalle aule univeristarie, ma in perfetta continuità. E questo è molto diverso da quando in passato, spinti dall’ideologia, si diceva: usciamo dalle università e andiamo a lottare nelle fabbriche a fianco degli operai. Oggi si dice: quello che facciamo all’Università continuiamo a farlo allargandolo alla società, a coloro che vogliono partecipare a questo lavoro critico comune, a questo laboratorio».

In che modo?

«Organizzando ad esempio delle conferenze, come sta accadendo a Giurisprudenza, alle quali sono invitati professori, magistrati e studenti, ma aperte a chiunque voglia parteciparvi. In questo che è stato chiamato Laboratorio per la democrazia si riuniranno con una certa cadenza professori e studenti, al di fuori dei normali programmi degli ordinamenti didattici, ma tenendo conto della cerniera che c’è tra l’Università e la società».

Vi state coordinando con gli altri atenei, sia in Toscana che nel resto d’Italia?

«Questa del Laboratorio per la democrazia è un’iniziativa fiorentina. So comunque che qualcosa di analogo avviene a Pisa e a Siena».

Non avete, dunque, nessun contatto?

«Solo a livello di informazione. Ma non c’è nessuna forma di coordinamento, un comitato centrale o cose del genere. Ci sono soltanto gruppi che lavorano nella realtà in cui si trovano».

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