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Giussani, testimone di Cristo come presenza viva

di Franco CardiniNon ho mai conosciuto personalmente don Luigi Giussani. E ora molto me ne dispiace, anche perché avevo ricevuto in più occasioni da lui un invito a far due chiacchiere: ma, per diversi motivi, non ero mai riuscito a combinare l’incontro.Non sono mai neppure appartenuto a «Comunione e Liberazione». L’ho però seguita da vicino tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, quando ero collaboratore assiduo de «Il Sabato».

E anche prima, ai tempi del «movimento studentesco» e della «Pantera», mi era capitato di appoggiare i ragazzi di Cl e di doverli difendere, al tempo in cui nelle facoltà universitarie i soliti Sinceri Democratici, la gente del «Molotov-e-Champagne», scrivevano sui muri «Comunione e Liberazione avvelena anche te: dille di smettere». Oggi che molti ex della sinistra chic sono diventati onorevoli o direttori di quotidiani, e che si trovano dalla stessa parte di parecchi giussaniani e dicono quasi le stesse cose di loro, ciò può sembrare strano. Ma a quei tempi, venti o trent’anni fa, non era poi così infrequente che uno studente venisse a parlarti chiedendoti una tesi perché il Chiarissimo Collega XY gliel’aveva negata con lucide argomentazioni intellettuali del tipo «con la gente di Giussani non voglio aver a che fare».

Ho sempre ammirato la fede e l’entusiasmo che Giussani riusciva a comunicare, a spargere attorno a sé. Anche se ho sempre avuto poi una certa difficoltà a capire e ad apprezzare la sua spiritualità. I suoi libri mi sono sempre apparsi ostici: e non perché «difficili», anzi forse per il contrario. Diciamo che, se c’era una cosa estranea alla mia sensibilità teologica agostiniano-francescano-cusaniano-erasmiana e per le mie simpatie esistenziali di tipo nietzscheano, se c’era qualcosa di remoto dal mio paradossale ed escatologico cattolicesimo fiorentino pieno di Papini, di Giuliotti, di Mordini, di La Pira e di don Milani, ciò era proprio il tono spirituale e moralistico lombardo, fra il Borromeo il Rosmini e il Manzoni, proprio di Luigi Giussani. Eppure, quel prete brianzolo aveva scoperto l’uovo di Colombo. Cioè che, per dirla con le sue parole, nel Cristo c’è il solo «criterio esplicativo del reale». Cristo è l’inizio – l’Alfa e l’Omega, secondo la vecchia venerabile formula liturgica –, e «nell’inizio c’è già tutto». Un «tutto» che Giussani intendeva in senso profondamente teologico ma, al tempo stesso, pienamente concreto.

Questo è il centro del problema: il nucleo non solo della fede, ma anche della vita e delle opere di Luigi Giussani.

Di solito, tutti – almeno noi «cristiani occidentali», e soprattutto cattolici – ripetiamo ch’è necessario distinguere tra «fede» e «vita civile», pur mantenendo vivo il senso dell’unità profonda del nostro agire. È questo il carattere di fondo della nostra «laicità», della quale andiamo o fingiamo di andar tutti orgogliosi. È questo che ci consente di vivere e di lavorare come buoni cristiani e buoni cittadini nel mondo che ha irreversibilmente metabolizzato il «processo di laicizzazione».

La Chiesa ha cessato da tempo di definir tale processo «desacralizzazione» o addirittura «apostasia»: il che significa, in termini più chiari, che ormai si è da tempo accettato che il nostro cristianesimo deve accettar di esprimersi rinunziando alle prospettive di ricostruire una qualunque «Cristianità», cioè una qualunque società nella quale il verbo sia alla base dei principii giuridici, civili e sociali. La (necessaria?) risposta alla domanda relativa a come questa rinunzia possa conciliarsi con la «beata speranza» del tempo in cui vi sarà un solo Gregge e un solo Pastore, noi la lasciamo agli eschata, ai novissima.Potrebbe sembrar spirito di realismo e di concretezza.

Eppure, il prete brianzolo non ci stava. La sua concretezza era d’altro tipo, che rovesciava questa logica. Non si deve distinguere per riunire di nuovo tra fede e realtà: si deve, semplicemente, distinguere all’interno di quel ch’è unito al fine di conseguire un’unità sempre più profonda. Per il Cristo, col Cristo e nel Cristo: Giussani aveva elaborato, col suo cristocentrismo e con la sua passione per il Cristo-Uomo e per il Cristo nell’uomo, una teologia eucaristica della vita concreta. Fu senza dubbio frainteso: ad alcuni apparve un pericoloso fanatico integralista che celava la sua intransigenza dietro una sorridente bonarietà; per altri, al contrario, un bravo prete un po’ ignorante, che si piccava di teologia ma che non riusciva mai ad andar oltre una sorta di moralismo pastorale.

«Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa… io con le mie opere ti mostrerò la mia fede». È la lettera dell’apostolo Giacomo, 2, 18. È forse uno dei passi-chiave della Scrittura per comprendere Giussani, come tutto un arco di protagonisti e di fatti fondamentali della Chiesa otto-novecentesca che vanno da Giovanni Bosco a Escrivá, dall’Opera dei Congressi all’Opus Dei e – appunto – alla Compagnia delle Opere. Persone, intenzioni, sodalizi molto diversi tra loro, senza dubbio: ma animati si direbbe da un’unica volontà, quella di riaffermare la presenza viva e concreta del Cristo del mondo, la Sua volontà di non viverci come un isolato e un ghettizzato ma, al contrario, di riconquistarsi tutto lo spazio civile, sociale, politico, economico, finanziario che Gli spetta e Gli compete. Senza controrivoluzioni, senza insorgenze, senza restaurazioni. Semplicemente reinsediandosi nel cuore dell’uomo e dirigendo le sue scelte, perfino santificando la sua volontà di fare, di riuscire, di guadagnare. L’aver accettato il «processo di laicizzazione» ha reso il mondo cattolico straordinariamente sensibile alla dicotomia, enunziata da Erich Fromm, fra «essere» e «avere». Luigi Giussani, con molta semplicità, si situava oltre tale dicotomia: il suo «fare» era – secondo le parole della lettera di Giacomo – un’espressione diretta e conseguente dell’essenzialità dell’«essere», cioè di quella che per il cristiano è la fede.

Da qui il fiorire forse non miracoloso, certo però prodigioso, delle realizzazioni di Giussani e dei suoi: e il carisma del fondatore fu senza dubbio un ingrediente fondamentale del successo di molte iniziative e realizzazioni. Dagli anni ormai lontani di Gioventù Studentesca al centro Culturale Charles Péguy; dal radicamento di Comunione e Liberazione prima nel mondo scolastico e universitario, quindi – dal 1971 – in quello del lavoro; dai rapporti con don Zeno Saltini e con Nomadelfia all’Istituto di Studi per la Transizione e all’editrice Jaca Book; dalla nascita del Movimento Popolare (che forse ha contribuito a scardinare la democrazia cristiana, ma che l’ha anche scossa e ne ha accelerato una metabolizzazione ch’era ormai divenuta necessaria) ai Meetings di Rimini; dalla diffusione di Comunione e Liberazione in Italia, nell’Europa orientale e nel mondo fino alla Compagnia delle Opere: quasi mezzo secolo di lavoro, di realizzazioni, di battaglie, motto delle quali potrebb’essere una celebre frase pronunziata da Giussani a Rimini, nell’ottobre del 1975: «Fatto ed evento sono le parole più cattoliche, così come la parola avvenimento: Gesù come un fatto». Può darsi che un ormai trentennale abuso di questi termini da parte del mondo ciellino abbia logorato questa splendida verità: ma io continuo a considerarla una delle più belle sintesi di teologia della storia e, al di là di esse, una delle più lucide definizioni del senso cristiano della storia che siano mai state enunziate. Gesù come un Fatto: a dirla con Nietzsche, l’Asse della storia attorno al quale danzano i secoli.

Ora che Giussani è passato dal tempo all’eternità e che forse ai giussaniani accadrà quel che è sempre accaduto ai seguaci dei grandi fondatori – e del resto le tensioni e le scissioni sono già cominciate da tempo –, il pericolo è quello di una specie di contaminante feed back che, dalle polemiche e dalle responsabilità di qualche collaboratore o di qualche seguace o di qualche epigono, finisca con il riversarsi su di lui e sulla sua memoria. Partendo da certe compromissioni forse maldestre, forse eccessive, con la «politica politicata» dei partiti, da certi guai nati dalla gestione di alcune iniziative e così via, è ormai diventato abbastanza comune l’accusa, rivolta a Comunione e Liberazione e dintorni, di «integralismo» da una parte, di politicantismo, affarismo e spirito di profitto dall’altra.

Non deve sembrar una volontà di eludere tali questioni, che in effetti esistono per quanto alimentate da molta malevolenza, l’obiettare che non è per nulla questa la sede per addentrarsi in problemi di questo tipo. Comunque stiano le cose, non va mai dimenticato che Giussani e i suoi hanno vissuto, specie negli Anni Settanta, tempi molto duri; che alle calunnie hanno tenuto per molto tempo dietro delle vere e proprie violenze; che Comunione e Liberazione ha un suo martirologio. Perché in fondo – e credo opportuno che a dirlo sia proprio io, che, dopo gli anni de «Il Sabato» e della mia assidua collaborazione ai Meetings di Rimini, ho mostrato chiaramente di non approvare e di non apprezzare una certa deriva politica e «cristianista» del mean stream di Cl – quel che davvero si rimprovera ai giussaniani non è né il politicantismo né l’affarismo, né l’«integralismo» né lo spirito di profitto. È qualcos’altro, molto ben descritto da Luigi Giussani e da Luigi Negri in un documento del 4 febbraio del 1975 stilato dopo l’aggressione subita da due militanti ciellini ad opera di una ventina di studenti universitari del Fuan, l’organizzazione studentesca del Msi.

E scrivevano appunto Giussani e Negri, senza lasciarsi irretire in polemiche inutili e banali contro gli estremisti che erano stati i protagonisti materiali dell’aggressione, bensì mostrando di saper arrivare all’ovvio ancorché in apparenza insospettabile centro del problema e quindi ai mandanti oggettivi del crimine: «Di fronte al ricomporsi dell’unità (dei cristiani che accettano il Cristo come punto concreto di riferimento delle loro scelte) si sta oggi aggravando l’influenza che l’ideologia del laicismo radical-borghese esercita sulla nostra società. Questa ideologia, assunta anche dal “progressismo socialista”, sta diventando a livello culturale e politico un fatto dominante. Ci sembra ormai possibile parlare di un nuovo “totalitarismo ideologico” che, se tollera ancora la fede come fatto della coscienza privata, cerca, anche con la violenza, di impedire ogni emergenza pubblica e ogni incidenza politica. Il nome stesso di cristiano, come ha affermato il cardinale Poletti, è spesso contrastato come se fosse colpa sociale».

Una dichiarazione esemplare. Molta acqua, da allora, è passata sotto i ponti: eppure queste parole di un trentennio fa conservano intatta la loro veridicità e il loro peso storico e morale. Certo, in apparenza i tempi sono totalmente cambiati: il cristianesimo viene usato addirittura come bandiera vincente, com’è accaduto nelle ultime elezioni presidenziali negli Usa, e dal ground zero di New York alle bandiere dei reparti americani schierati in Iraq si nomina di continuo il Nome di Dio. Ma resta attuale la riflessione su un nuovo possibile «tempo delle catacombe» per i cristiani, espressa da quel Giovanni Paolo II veneratissimo dai media ma inascoltato quando parla di pace e di giustizia; e, se alcuni ricchi e potenti cristiani o sedicenti tali dominano il mondo, quelli poveri sono perseguitati e muoiono o sono costretti a emigrare, dal Sudan alla Palestina. Provate a rileggere quanto Giussani e Negri scrivevano trent’anni fa sostituendo all’espressione «laicismo radical-borghese» quella «conformismo liberal-liberista» e all’espressione «progressismo socialista» quella «pensiero unico occidentalista»: e il gioco è fatto.

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Addio don Giussani, sacerdote dell’incontro