Toscana
Giù le mani dalla morte
Il livello delle relazioni e la statura scientifica degli studiosi invitati, hanno reso l’evento davvero unico ed hanno permesso una riflessione a 360 gradi sull’argomento. Dopo un inquadramento generale del problema, affidato a Carlo Casini, Presidente del Movimento per la Vita Italiano, Donatella Lippi ha ripercorso la storia dell’attenzione al morente, mentre Paolo Gentilini ha trattato il difficile e scomodo tema, anche per noi cristiani, della sofferenza come dono. Corrado Manni, che per ben sei volte, come anestesista del Policlinico Gemelli, ha seguito Giovanni Paolo II nel suo calvario di interventi chirurgici, ci ha portato una bellissima e commossa testimonianza del medico di fronte alla morte. Non è mancato poi il punto di vista del giurista, esposto da Ferrando Mantovani, che è riuscito a trattare un tema tanto complesso in maniera esaustiva, ma anche semplice e colloquiale, cosa non sempre facile per chi si occupi di diritto e debba confrontarsi con medici ed operatori sanitari.
Pierluigi Rossi Ferrini ha affrontato con molta sensibilità un’altra spinosa questione, quella della verità da comunicare al paziente inguaribile, mentre Giampaolo Donzelli ha avuto il compito di relazionare su un tema che spesso viene dimenticato in contesti come il nostro: quello della terapia intensiva neonatale e del momento, indicibilmente drammatico, per il medico, ma soprattutto per la madre, in cui la vita, portata in grembo e appena nata, si confronta con la morte. Devo dire che, senza forse, questa è stata la relazione più apprezzata dai presenti, non soltanto per il rigore scientifico e culturale con la quale l’amico Donzelli l’aveva preparata, ma anche per la carica umana e poetica con cui l’ha esposta.
È toccato poi al Prof. Gianluigi Gigli, Presidente della Federazione Internazionale dei Medici Cattolici, riassumere la posizione della nostra Associazione, anche a livello mondiale, sulle tematiche di fine vita e l’ha fatto illustrando le conclusioni di un Congresso che qualche mese si è tenuto in Vaticano e che aveva per argomento i malati in stato vegetativo, cioè quei pazienti che, prevalentemente per traumi cranici o per patologie acute cerebrali, vivono, anche per molti anni, in uno stato di, almeno apparente, perdita totale di coscienza, pur respirando autonomamente e non avendo bisogno di alcun supporto meccanico per l’apparato cardiocircolatorio. Non sono dunque attaccati ad alcuna macchina e la loro morte non può essere provocata staccando, come si dice usualmente, una spina. Le loro necessità sono quelle di essere alimentati, idratati e presi in carico da un punto di vista assistenziale, ma, per alcune scuole di pensiero, che oggi vanno per la maggiore, non possedendo più un evidente stato di coscienza e, quindi, la possibilità di relazionarsi con gli altri, essi non sono più persone e, dunque, è lecito sospendere l’alimentazione e l’idratazione, così da lasciarli morire, di fatto, per fame e per sete. Com’è naturale la nostra risposta a questa impostazione che dà valore alla vita dell’uomo soltanto ad alcune condizioni e ne gradua la dignità in base allo stato di salute e di capacità cognitive, non può che essere di totale ed assoluto disaccordo.
Del resto la stessa Enciclica di Giovanni Paolo II Salvifici doloris, che tratta i temi del dolore, della sofferenza, della morte, è tra le meno lette nelle nostre comunità. E come si cerchi allora di governare questa morte, di dominarla tecnicamente: in ultima analisi di medicalizzarla, affrettandola (eutanasia) o ritardandola artificialmente (accanimento terapeutico, ma si è parlato anche di onnipotenza terapeutica) che costituiscono pratiche soltanto in apparenza opposte, in quanto imperniate sulla medesima filosofia di fondo: il dominio della tecnologia medica che, di fronte ai naturali limiti della scienza, vuol mantenere l’imperio di poter decidere quando e come porre fine alla vita umana.
Si parla allora di morte assurda, se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta ad un futuro ricco di possibili esperienze interessanti o, viceversa, di morte come liberazione rivendicata, se la vita è ritenuta ormai priva di senso, perché immersa nel dolore e senza speranza. Non è più l’uomo che muore, la sua vicenda storica che si compie, ma è la dissoluzione dei suoi organi, la paralisi di alcuni fenomeni fisiologici, l’esaltazione di sensazioni che superano la soglia della sopportabilità fisica e morale, che segnano e segnalano la sua fine. La morte, insomma, non è più fatalmente inesorabile, ma è considerata alla stregua di una disfunzione organica.
Dunque non possiamo che ribadire con forza il nostro no di medici e di cattolici a qualsiasi forma di eutanasia: attiva, omissiva, suicidio medicalmente assistito, da abbandono sociale del soggetto, in particolare dell’anziano non autosufficiente.
È un no che trova il suo fondamento in almeno due motivi. Il primo di ordine filosofico: la vita è il bene fondamentale della persona, anche rispetto alla libertà ed è assurdo che, per esaltare la libertà di scelta dell’individuo, se ne sopprima la sorgente, la radice. La vita del singolo non è soltanto una ricchezza individuale, ma anche un bene sociale e la società ha il dovere di difenderla. Una società che non difendesse la vita dei singoli verrebbe meno alla sua ragion d’essere perché la società, l’organizzazione sociale, esiste per il bene comune e non per l’utilitaristico bene di alcuni, che poi sono coloro che risultano essere i più forti e, magari, i più sani, per i quali vale la pena di utilizzare le risorse a disposizione. Il secondo motivo è di carattere più squisitamente religioso: il Creatore è donatore della vita e la vita è un dono che è relazione con Dio e relazione con l’eternità. Inoltre esiste una significatività del dolore e della morte: non sono momenti che annullano l’esistenza umana, ma, nel processo redentivo e di amore, hanno un significato sia in chi li patisce sia in chi assiste (la fede dà senso al dolore). In fondo la radice sociologica, psicosociologica e culturale che sta dietro la mentalità di morte della nostra società edonistica sta proprio nell’incapacità di dare senso alla vita, alla sofferenza, alla morte.
Se ci ostineremo ad aprire le porte a questa cultura che nega la vita, come si è già fatto introducendo nell’ordinamento leggi abortiste, le conseguenze temibili e, purtroppo, prevedibili e già attuali, saranno diverse: dall’indebolimento della percezione condivisa del valore della vita, al rischio di veri e propri abusi su chi è meno difeso, al pericolo di minare alla base il rapporto di fiducia medico paziente, al fatto che l’eutanasia non potrà essere rifiutata, nel suo interesse (sic!), a chi non è in grado di chiederla (malati di mente, handicappati, disabili, pazienti in stato vegetativo) ed il medico finirà col pensare che il desiderio di alcuni pazienti gravemente malati di continuare a vivere è irrazionale e capriccioso, perché la vita in quelle condizioni è biologicamente detestabile, un peso sociale intollerabile: in sintesi uno sperpero economico. Così, dalla richiesta di aiuto al suicidio, si scivola facilmente alla distribuzione della morte senza richiesta o non volontaria. È ciò che già si registra drammaticamente in Olanda. Infine, tutto questo porterebbe al disimpegno pubblico nei confronti dell’assistenza ai morenti e a frenare il progresso scientifico, perché i medici non sarebbero più stimolati a ricercare nuove soluzioni in vaste aree della medicina (invecchiamento, degenerazione cerebrale, medicina palliativa).
Persino i nazisti uccisero i malati di mente in silenzio per paura delle reazioni dell’opinione pubblica. Scriveva Hitler, in una lettera dell’ottobre 1939, al suo medico personale Karl Brandt: Dobbiamo garantire una morte pietosa ai pazienti considerati incurabili secondo il miglior giudizio umano. E da lì prese il via l’operazione sterminio pietoso od Operazione T4, che fece 70.000 vittime, tra cui bambini ritardati, ma anche soltanto incontinenti o sordi, anziani, ecc… . I cadaveri venivano poi cremati a spese della famiglia, alla quale venivano consegnate le ceneri…!
Nel futuro dobbiamo dunque aspettarci questo scenario? Noi vogliamo sperare di no, anche perché verrebbe drammaticamente lacerato qualsiasi rapporto di solidarietà e di amore all’interno della comunità degli uomini ed il massimo di assenza di etica si sposerebbe con la più spaventosa ingiustizia sociale nei confronti di chi è più debole e sofferente, ma, ahimè, anche il meno autonomo ed il più costoso per la società. Uno scenario degno del peggiore totalitarismo neonazista e neorazzista: più spaventoso perché subdolamente introdotto in un ambito all’apparenza pluralista e democratico. Scrive Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae: il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l’assunzione del bene comunecome fine e criterio regolativo della vita politica. Anche la pace non misurata sui valori della dignità di ogni uomo e della solidarietà tra tutti gli uomini è non di rado illusoria. Negli stessi regimi partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale situazione, la democrazia diventa facilmente una parola vuota.