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GIOVANNI PAOLO II: NO ALLA VIOLENZA, SÌ AL DIALOGO
“La pace è un dovere per tutti”, oltre che “uno dei beni più preziosi per le persone, i popoli e gli Stati”. A ribadirlo è stato oggi il Papa, nel discorso rivolto agli ambasciatori di Sierra Leone, Giamaica, India, Ghana, Norvegia, Rwanda e Madagascar presso la Santa Sede, in occasione della presentazione collettiva delle lettere credenziali.
“Tutti gli uomini ha proseguito il Santo Padre, nel suo nuovo appello alla pace la desiderano ardentemente”, perché “senza la pace, non ci può essere un autentico sviluppo degli individui, delle famiglie, della società e della stessa economia. La pace è un dovere per tutti”. “Volere la pace ha puntualizzato il Pontefice – non è un segno di debolezza ma di forza”, e “si realizza attraverso un’attenzione al rispetto dell’ordine internazionale e del diritto internazionale, che devono essere le priorità di tutti coloro che hanno in carico il destino delle nazioni”: di qui l’invito del Papa a “considerare il valore primordiale delle azioni comuni e multilaterali per la risoluzione dei conflitti nei differenti continenti”.
Giovanni Paolo II ha rivolto un altro “pressante” appello alla comunità internazionale: quello a “ripensare al più presto la doppia questione della ripartizione delle ricchezze del pianeta e di una assistenza tecnica e scientifica equa nei riguardi dei paesi poveri, che costituiscono un dovere per i paesi ricchi”. “La miseria e le ingiustizie ha fatto notare, infatti, il Papa sono fonti di violenza e contribuiscono al mantenimento e allo sviluppo di diversi conflitti locali o regionali”, specialmente in quei paesi in cui “la carestia si sviluppa in maniera endemica”.
In questo contesto, ha concluso Giovanni Paolo II, “la comunità internazionale è chiamata a fare tutto il possibile affinché questi flagelli possano essere a poco a poco soppressi, particolarmente attraverso mezzi materiali e mani che aiutino i popoli che hanno più bisogno. Un sostegno più consistente all’ organizzazione delle economie locali permetterebbe alle popolazioni autoctone di prendere in mano il proprio futuro”.