Toscana

Giovani sempre più in crisi si rifugiano in droga e alcol

Con il 10%, i sedicenni italiani si collocano al quarto posto della poco invidiabile classifica dei centomila giovani europei che fanno uso di tranquillanti e sedativi senza prescrizione medica. Si registra anche il consumo di alcolici associato ai farmaci per «sballare», dichiarato dal 6 % degli studenti a livello internazionale e dal 4% di quelli italiani. Sono alcuni dei dati contenuti in una ricerca dell’Espad (European school project on alcohol and other drugs), il progetto di indagini scolastiche su alcol e altre droghe, tra studenti europei di età compresa tra 15 e 16 anni. La raccolta dei dati, avvenuta nel 2007, ha coinvolto 35 paesi; per l’Italia è stata condotta dall’Istituto di fisiologia clinica (Ifc) del Cnr di Pisa su un campione di circa 10 mila studenti, tra i 15 e i 19 anni. «In Italia», rileva Sabrina Molinaro dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, «ha fumato almeno una sigaretta nella vita il 61% degli studenti intervistati, nei 30 giorni precedenti la compilazione del questionario il 37%». In aumento (dal 34% al 38% tra il 2003 e il 2007) il consumo episodico di quantità elevate di alcol. Nelle tre tabelle sono sintetizzati i dati più significativi a livello toscano della ricerca.

di Bruno Frediani

I dati pubblicati da ESPAD (The European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs) trovano conferma in uno studio effettuato dal Ce.I.S.- Gruppo «Giovani e Comunità» di Lucca e dal CeSDop, in collaborazione con la Provincia di Lucca e le Aziende sanitarie locali 2 di Lucca e 12 di Viareggio. I risultati di questa indagine sono stati presentati lo scorso primo aprile, nell’ambito del convegno «Cocaina – presentazione dei dati dello studio sul consumo di cocaina nella provincia di Lucca». Durante il 2008, infatti, è stato effettuato uno studio per sondare i livelli di penetrazione delle sostanze psicoattive tra la popolazione giovanile e, in particolare, sulle modalità di uso e di diffusione tra i giovanissimi.

La media dell’età dei ragazzi che ne fanno uso è tra i 15 e i 16 anni con una prevalenza di assunzione di sostanze che va dall’alcol, alla marijuana e all’hashish.

L’uso di cocaina, invece, si ha dai 14 ai 29 anni. Il 64% degli intervistati sul territorio ha fatto uso di qualche sostanza. Il 58%, inoltre, ha fatto uso almeno di cannabis, mentre solo il 6% ha usato sostanze illegali senza provare la cannabis. Sembra, pertanto, difficile il passaggio all’uso di altre sostanze illegali senza essere prima passati dall’hashish o dalla cannabis. Per quanto concerne l’uso di sostanze illecite nel corso del 2008 la prevalenza di uso di cannabinoidi e cocaina è simile (20%) mentre ai primi posti del consumo vi sono alcol, cannabinoidi e cocaina. In conclusione, alcol e cannabis sembrano le sostanze di accesso ad altre droghe psicoattive. In molti casi, soprattutto tra i giovanissimi, non viene ritenuta pericolosa l’associazione tra l’uso di sostanze, compreso l’alcol, e la guida di veicoli. Infatti, secondo lo studio, il 45% dei soggetti intervistati ha affermato di essersi messo alla guida sotto l’effetto dell’alcol. Il 30% ha guidato dopo aver assunto stupefacenti almeno una volta nella vita, mentre il 22% negli ultimi trenta giorni.

Per quanto concerne i significati attribuiti all’uso di sostanze è emerso che, mentre l’alcol è utilizzato per compagnia, per passare il tempo, per mascherare la timidezza (femmine), per allegria, gusto e disinibizione, la cannabis viene utilizzata invece per rilassarsi, dormire e socializzare. La cocaina, infine, vede un prevalere dell’effetto prestazionale e, quindi, viene usata per lavorare, per sostenere ritmi veloci e per essere più attivi. Molti la usano per contrastare l’effetto di altre sostanze (ad esempio per guidare quando si è ecceduto nell’uso di alcol) e si rileva che la motivazione dell’uso di cocaina per andare a ballare è poco frequente.

Dati di questo tipo spingono ad una riflessione approfondita che va oltre gli addetti ai lavori nell’ambito del recupero dei tossicodipendenti.

Questo pericoloso aumento dell’uso di sostanze riflette l’angoscia di tutta la società: famiglie che scoppiano, persone che a causa della crisi economica e della disoccupazione, si isolano dal contesto, insegnanti che cercano risposte «tecniche» ai loro problemi quotidiani di violenza, bullismo, droga.

Nella difficoltà a comprendere la complessità, la cupezza e l’angoscia del vivere quotidiano, ci si affida ai servizi e agli operatori «specialisti». Ma non è che classifichiamo come patologia la complessità del tutto naturale del vivere? Non è che cerchiamo da specialisti risposte che devono venire da nuovi modelli culturali e nuovi stili di vita?

Sui servizi e sugli operatori si concentra un’attesa troppo grande, che essi non sono in grado di soddisfare, perché queste attese non chiamano in causa solo delle competenze tecniche e professionali.

«Stai male? Con quel farmaco siamo in grado di affrontare il tuo malessere, perché è solo una questione di molecole». In realtà, invece, la crisi individuale va ad inserirsi in una crisi più ampia, di tutta la società. La crisi non è l’eccezione alla regola, ma è la regola della società. È la crisi nella crisi. È questo il punto centrale a partire dal quale si dovrebbe cercare di comprendere i bisogni di aiuto per poter elaborare risposte adeguate.

Per spiegare questa crisi nella crisi, M. Benasayag usa una immagine: «la persona che soffre è in una situazione che assomiglia a quella di una barca, che, lasciato il porto, si ritrova in mezzo a una burrasca. Il clinico deve a quel punto aiutare l’imbarcazione a riguadagnare le acque calme e a rientrare in porto. Ora, proseguendo la metafora, la maggior parte delle persone sembrano convinte che, una volta superata la tempesta, il porto d’arrivo non esista, o, piuttosto, non esista più».

Molti giovani oggi, spesso accompagnati dalle loro famiglie, vagano da un servizio all’altro, da un professionista all’altro, portando con fatica il pesante fardello della loro sofferenza e del loro disagio. Spesso incontrano strutture e operatori competenti, ma è difficile che questi siano capaci di rispondere in toto alla loro domanda di aiuto.

Molti tipi di sofferenza (malattia mentale, dipendenze da droghe e alcol…) oggi non incontrano realmente accoglienza e aiuto.

In una società della crisi, si evolve anche il ruolo di educatori e operatori. Non è la stessa cosa, infatti, educare e prendersi cura in una società stabile, solidale e che ha fiducia nel futuro e in una società in crisi, dove vige il «si salvi chi può».

Genitori ed insegnanti non rappresentano un simbolo forte per i giovani. I rapporti tendono ad abolire i ruoli e le differenze, a divenire contrattuali, alla pari. I genitori non riescono più a percepire i bisogni dei figli e la loro realtà emotiva e affettiva. Il rapporto diventa sempre più conflittuale, spesse volte violento, e si ricorre perciò ai servizi e agli operatori, perché viene interpretato come patologico. Il tentativo di relazionarsi con i figli solo attraverso la persuasione, senza assumere posizioni autorevoli e contenitive, lascia il ragazzo solo di fronte alle sue pulsioni e alle ansie che ne derivano. La vita familiare diventa tesa e piena di ansia e di inquietudine.

Si oscilla tra la coercizione e la seduzione di tipo commerciale: il genitore o l’educatore cerca il modo migliore per far accettare al ragazzo la sua proposta quasi come in un rapporto tra venditore e cliente. Se i tentativi di persuasione falliscono, allora si passa all’imposizione o al disinteresse.

È difficile giustificare l’obbedienza. In passato l’adulto poteva dire: «Se mi obbedisci, raggiungerai i traguardi che ho raggiunto io», ma oggi questi traguardi non sono garantiti, né sembrano più contenere quel valore e quella forza di attrazione che hanno avuto per gli adulti, e allora l’obbedienza rischia di essere esigita solo sulla base del ruolo e delle regole.

La crisi attuale nasce anche dall’individualismo e dal materialismo che riduce le relazioni a mero scambio, secondo la logica del consumo. In questa logica la solidarietà non è più un valore, perché le relazioni sono vissute come contratti e competizione. Criterio fondamentale è l’utilità, la produzione di profitto e di potere.

Il futuro, vissuto come minaccia e non come promessa, sembra chiudere ogni prospettiva. Per i giovani di oggi il mondo è pericoloso, l’altro è un avversario e un nemico. Bisogna armarsi per difendersi o scappare. Gli adulti hanno interiorizzato il fallimento della visione del futuro come promessa e hanno fatto propria la visione del futuro come minaccia. Cercano perciò di educare i figli in modo che «si armino» verso il futuro: «Se non studi, non troverai lavoro…».

Ogni sapere deve essere utile, ogni insegnamento deve servire a qualcosa. Tutto diventa problema economico. Anche il lavoro sociale e sanitario è influenzato da questo efficientismo. Gli ospedali e i servizi diventano aziende. È necessaria una riflessione più approfondita sui bisogni e sulle aspettative delle persone e delle comunità e sulle sofferenze che si trovano a vivere.