Vita Chiesa
Giovani, religioni, pace: così la ricetta di La Pira diventa realtà
di Claudio Turrini
Prendi un buon gruppo di giovani italiani. Aggiungi coetanei provenienti da paesi con culture, tradizioni e fedi diverse. Alcuni anche da situazioni di conflitto. Falli vivere per una decina di giorni gomito a gomito al Villaggio La Vela di Castiglion della Pescaia, dove anche le pietre ti parlano di campi-scuola. Fai in modo che condividano tutto nella giornata. Detta così la «ricetta» del Campo internazionale dell’Opera per la gioventù «Giorgio La Pira» sembra facile. In realtà è frutto di tanto lavoro dietro le quinte e di un’esperienza ormai ventennale, iniziata da Pino Arpioni, fondatore dell’Opera e dello stesso Villaggio.
Agli inizi degli anni ’90, Pino dopo aver già stretto rapporti ecumenici con anglicani inglesi e ortodossi greci ebbe l’idea di aprire il campo-scuola della prima quindicina d’agosto, tradizionalmente riservato ai «più grandi», a giovani provenienti dalla Russia, appena nata dalle ceneri dell’Urss. Erano studenti dell’università «Mgimo» di Mosca, guidati dalla loro insegnante di relazioni internazionali, Tatiana Zonova e dal marito grande italianista Viktor Gajduk. I legami con Mosca si erano sviluppati dopo il viaggio in Urss di un centinaio di giovani dell’Opera nel novembre 1984, a 25 anni dallo storico discorso al Cremlino di Giorgio La Pira, nell’agosto del 1959. Vecchie conoscenze (Silin, Zagladin, Kapalet ) si tramutarono in solide amicizie e ne nacquero di nuove, sia con istituzioni «laiche» che con la Chiesa russo-ortodossa, specialmente a San Pietroburgo.
In vent’anni sono passati da «La Vela» centinaia di universitari del Mgimo. Molti di loro hanno oggi importanti incarichi diplomatici in giro per il mondo. Altrettanto si può dire per la Chiesa ortodossa. Il vescovo di Petergof, Marcello (Markell), attuale Vicario della Diocesi di San Pietroburgo e Ladoga, è stato più volte al Campo e ogni anno vi invia suoi sacerdoti e seminaristi. E da alcuni anni giungono anche giovani dalla parrocchia cattolica di S. Caterina d’Alessandria a San Pietroburgo e dall’associazione ortodossa di Mosca, «Common cause».
Mosca e Fatima erano le due «arcate» del «ponte» che la Pira voleva costruire, secondo le profezie della Madonna, per la pace tra le nazioni. Così Pino allacciò rapporti anche con giovani cattolici portoghesi, che per diversi anni sono stati presenti al Campo. Poi nel 2003, proprio l’anno della morte di Pino, il primo viaggio dell’Opera in Terra Santa. E da lì l’idea di coinvolgere anche israeliani (ebrei e cristiani) e palestinesi (cristiani e musulmani), impresa non facile per la situazione di conflitto che vive quella terra. Al Villaggio riescono a fare quello che nella loro vita quotidiana è per ora impossibile: incontrarsi, parlarsi, scoprire che l’«altro» non è il «nemico» che vedi ogni giorno al di là di un check-point. Come partner l’Opera ha trovato la disponibilità del Centro Peres per la pace, della Custodia della Terra Santa e nel corso degli anni anche di varie realtà locali. Quest’anno alcuni giovani erano stati inviati da Yad Be Yad, un’associazione di volontariato operante a Tel Aviv. Anche in Toscana ha trovato dei «compagni di viaggio», nella Fondazione «La Pira», nel Centro internazionale studenti «La Pira» (che invia diversi giovani africani), nella Fondazione «Giovanni Paolo II», nell’Ac e nell’Agesci.
Al Villaggio si sperimenta ogni giorno la dimensione ecumenica, con gli ortodossi che partecipano alla Messa quotidiana, arricchendola nelle solennità con i loro canti. Ne è rimasto colpito anche il cardinale Giuseppe Betori, che ha celebrato l’eucarestia la sera del 17 agosto. Ma c’è attenzione anche al dialogo interreligioso, imperniato sul grande rispetto per ogni credente. Così il venerdì, all’ora di pranzo l’imam conduce la preghiera islamica. E alla sera, la comunità ebraica festeggia lo Shabbat, spiegandone a tutti il significato.
I giovani sottolineano che il punto di partenza «per cambiare la mentalità corrente è l’educazione», lamentando «che il presente sistema d’istruzione, in particolare quello universitario, non è sempre adeguato alla formazione del capitale umano di una persona». Concretamente ritengono che uno strumento comune che è possibile «usare per agire sulla sensibilità del mercato è il consumo, inteso come scelta responsabile da parte del consumatore che dovrebbe premiare le imprese che promuovono una politica di lavoro più umana e sostenibile».
Il quadro che dipinge non è ottimistico. «La rivoluzione informatica è completamente diversa dalle altre rivoluzioni industriali», spiega. Anche allora il mercato del lavoro cambiò e ci furono proteste e disagi. Ma questa volta è molto peggio: «Nelle grandi fabbriche dove c’erano centinaia di disegnatori oggi ce ne sono cinque o sei con i computer. I nuovi software fanno sparire migliaia e migliaia di posti di lavoro». Poi c’è la concorrenza cinese, indiana, del Brasile… «I cambiamenti ammette sono più rapidi di quanto pensassimo. Se non reagiamo insieme sparirà la produzione industriale in Europa». Cresce il lavoro precario e i salari perdono il loro valore (in Italia negli ultimi anni si è ridotto di un terzo). «Viviamo nell’assurda situazione in cui chiediamo ai lavoratori di comprare di più ma diamo loro sempre meno soldi. Questa è la trappola del mondo contemporaneo». Le disuguaglianze avanzano ovunque e la speculazione finanziaria muove capitali 70-80 volte il valore delle transazioni vere. La conseguenza è una perdita di sovranità: «siamo costretti a politiche che non faremmo senza la minaccia dello spread».
Il dibattito parte da qui e spazia dalle difficoltà dell’Unione europea («se ne esce solo tutti insieme»), alla crisi siriana («più complessa di quella libica»), dalla riforma elettorale in Italia («la salvezza sarebbe il maggioritario alla francese e questo è il motivo per cui non verrà adottato») alla situazione dell’Africa, dopo la «guerra sbagliata» condotta contro la Libia. A questo proposito ha anche rivelato che in una lettera 29 capi di stato e personalità africane gli avevano chiesto di mediare sulla crisi libica. Lo stesso segretario generale dell’Onu gli aveva chiesto di esser pronto a partire. Poi tutto si è fermato, forse per un veto italiano o francese.
Le testimonianze: Ebrei e palestinesi d’accordo: «Un piccolo paradiso»
di Giacomo Mininni
Senza dubbio, una specificità quasi unica del Campo internazionale dell’Opera per la Gioventù «Giorgio La Pira» è quella di coinvolgere giovani da ogni parte del mondo puntando, più che su conferenze e riflessioni che comunque non mancano, sulla «semplice» condivisione della vita di ogni giorno, in una coabitazione che non cessa di sorprendere i partecipanti, veterani come nuovi arrivati.
Anche Roman, ventunenne russo dell’università diplomatica Mgimo di Mosca, aspettandosi incontri più accademici, ha trovato un’atmosfera decisamente più distesa e serena: «Niente è troppo formale, nei gruppi si può davvero esprimere la propria opinione». Rispetto ad analoghe esperienze in Russia, dove «non è possibile confrontarsi così apertamente tra culture, religioni e mentalità diverse», anche i partecipanti appaiono «una collettività reale: stanno insieme perché vogliono, non perché gli viene detto di farlo. E, qui, ci guardiamo davvero nel cuore e nella mente, senza barriere».
Anche Shani, ventinove anni, israeliana di Holon e rappresentante dell’associazione Yad Be Yad, ha scoperto che «vivere normalmente con le persone non è meno importante che partecipare agli incontri». Partendo da una situazione di conflitto nella propria terra, si stupisce di aver dovuto viaggiare fino in Italia per poter «incontrare davvero ragazzi palestinesi e fare con loro amicizia», e, commossa, ha imparato a conoscere il Villaggio La Vela come «un piccolo Paradiso, in cui persone di buon cuore, piene di amore da dare, cercano di conoscerti nel profondo, oltre la tua situazione». La ventisettenne Rula, palestinese di Betlemme, aggiunge che al Campo ha potuto «conoscere nuove culture, situazioni, idee», il tutto più attraverso la convivenza e l’amicizia che non nelle comunque fertili e stimolanti conferenze. «Mi sento come se fossi in Paradiso», racconta, «le persone sono buone, aperte, limpide. Qui mi sono accorta come da sempre io sia stata focalizzata sul conflitto nella mia terra, ora ho desiderio di conoscere il mondo ed i problemi di altre nazioni».
Alexandra, ventitré anni, studentessa rumena di Constanta, concorda sul fatto che «la convivenza ti aiuta a conoscere gli altri, ma anche te stessa: ti apre a nuove domande, e ti aiuta a ritrovare gli elementi essenziali della tua vita che magari avevi lasciato indietro». Come una delle interpreti del gruppo, poi, ha sentito che «la traduzione comporta una grande responsabilità, la responsabilità di un ascolto vero». L’esperienza del Campo Internazionale, su stile lapiriano, nasce da una visione profondamente religiosa della Storia, vista come un cammino che vede Dio e l’Uomo collaborare per la realizzazione di un progetto di salvezza: popoli, religioni e culture vengono quindi chiamati a condividere questa idea e questo camminare, che riceve un chiaro aiuto dall’Alto. Sempre Alexandra considera: «Mi ero un po’ allontanata dalla religione, ma credevo comunque di essere in ricerca di Dio. Qui, mi sono accorta che Lui era con me da sempre, che mi ha accompagnato nelle relazioni con le persone a me vicine».
Dal «paradiso» della «Vela» alla triste realtà di Roma, dove gran parte dei giovani provenienti da Russia, Israele e Palestina avevano fatto una breve sosta in attesa dei voli di ritorno. Una volta tornati ai due pulmini, parcheggiati davanti a negozi, in un’area centrale, li hanno trovati con i i vetri infranti e svuotati di tutti i bagagli. Qualcuno ha dovuto rinunciare al volo perché non aveva più i documenti. Davvero una brutta figura per l’Italia.
Nella foto, giovani israeliani e palestinesi presentano la cena mediorientale preparata insieme per il Campo. Anche russi e africani hanno preparato cene etniche.