Italia
Giovani e rave di Viterbo. Pollo: “L’educazione all’alterità solidale aiuta a prevenire queste forme di regressione”
C’è stata anche una vittima, un giovane di 25 anni, il cui corpo è stato trovato nelle acque del lago di Mezzano il giorno di Ferragosto. In quell’area si erano riuniti, a partire dalla notte tra il 13 e il 14 agosto, migliaia di giovani, provenienti da diversi Paesi europei, convocati con messaggi sui social. Il rave, nelle intenzioni degli organizzatori stranieri, sarebbe dovuto durare fino al 23 agosto, ma i giovani, dopo il “game over” lanciato su Telegram per le proteste dei proprietari del parco e della comunità locale, hanno abbandonato spontaneamente l’ampio piazzale interrato dove è stata organizzata illegalmente la festa, alimentata da gruppi elettrogeni, con musica emessa da enormi casse acustiche, banchi di vendita e ristoranti-bar mobili e una pizzeria che sfornava focacce alla canapa. Del rave e di cosa spinge i giovani a partecipare a eventi di questo tipo parliamo con il sociologo Mario Pollo.
Professore, perché i giovani si riuniscono in questi rave?
Sono restato perplesso leggendo un intervento di uno studioso su un quotidiano italiano che difendeva il rave, considerato dai giovani come un ultimo spazio di libertà vera. Questo riflette quanto sostenuto, qualche anno, da una parte di studiosi che riteneva i rave una forma moderna di ricomposizione di un rituale sciamanico, ma ciò è un errore clamoroso: il modo in cui vengono celebrati i rave produce uno stato di fusione, cioè le persone si fondono attraverso la musica e le droghe in una sorta di tutto indistinto, in cui la persona perde la coscienza e regredisce a un’appartenenza indistinta al tutto, dalla quale l’uomo si è emancipato attraverso un lungo percorso evolutivo. Al contrario, lo sciamano mantiene un controllo costante su di sé, pur assumendo sostanze psichedeliche, cosa che nel rave non si verifica. Purtroppo anche nella nostra realtà sociale si contrabbanda questo tipo di eventi come una “libertà”, mentre si tratta di regressioni.
Come bisogna reagire di fronte a rave con tutti gli eccessi che portano?
Dietro a questi rave c’è tutto un business. Nel caso di Viterbo gli organizzatori non sono neppure italiani e i partecipanti venivano da diversi Paesi. Di fronte a un fenomeno di tipo globale, le realtà locali, a cominciare dallo Stato italiano fino alle autonomie locali, appaiono come impotenti e impossibilitate a prevenire questo fenomeno e poi a controllarlo evitando tutta una serie di degenerazioni. Questo non è un messaggio positivo che diamo alle giovani generazioni, piuttosto di debolezza, perché mostriamo che ci sono dei fenomeni che lo Stato e le comunità locali non sono capaci di fronteggiare, aspettando che si esauriscano spontaneamente. È un biglietto di presentazione negativo perché così si faranno avanti altri che vogliono organizzare eventi simili.
C’è quasi un’accettazione di raduni del genere, secondo lei?
Sì, c’è una sorta di tolleranza considerando che fa parte della vita del giovane la ricerca dello sballo, cosa che molti fanno in discoteca, ma che nei rave è esaltata all’ennesima potenza. Pensare che il mondo giovanile abbia bisogno dello sballo è come dire che la tua vita quotidiana non è in grado di dare un senso alla tua esistenza e hai bisogno di uscire da te stesso, di regredire abbandonando lo stato di controllo cosciente della tua vita per vivere questi tipi di esperienze. Questo è un messaggio molto pericoloso: infatti, le esperienze forti non sono quelle regressive, ma sono quelle in cui una persona cerca un senso ulteriore rispetto alla propria vita anche in fenomeni di tipo collettivo, ma mantenendo viva la propria coscienza e il controllo su di sé. Dunque, anche in presenza di una dimensione affettiva ed emozionale, non si registrano regressioni a livello di comportamenti umani ma anzi li sviluppano. Penso, ad esempio, alle esperienze delle Gmg con Giovanni Paolo II. Se accettiamo lo sballo significa che non stiamo educando i giovani a dare un senso alla loro vita quotidiana, a scoprire il significato profondo che c’è dentro le piccole cose, anche quelle di routine e banali della quotidianità. Questa è una crisi profonda dei nostri modelli educativi e formativi, ma anche della nostra cultura sociale. Porto un esempio.
Ci dica…
Per una mia ricerca di diversi anni fa sui giovani e la notte, ho conosciuto un giovane che andava tutti i sabati in discoteca dove sballava con sostanze psicotrope e stupefacenti, malgrado un suo caro amico, con cui condivideva questa abitudine, fosse morto proprio per l’uso di tali sostanze. Ma non riusciva a smettere, fin quando un giorno ha iniziato un’attività di volontariato accanto a bambini provenienti da Chernobyl che passavano un periodo in Italia. Da allora non è andato più in discoteca e ha smesso di assumere sostanze stupefacenti perché aveva trovato nella vita quotidiana qualcosa che dava un senso alla propria vita. Noi ci preoccupiamo di nutrire, istruire, dare una serie di opportunità alle nuove generazioni, ma non ci occupiamo di far nascere le domande: “Che ci faccio io qui? Che senso ha il mio essere nel mondo” e di cercare di aiutarli a trovare una risposta. Questa è la grave carenza culturale e i rave sono degli episodi estremi. Ovviamente, c’è anche un’altra parte di giovani che fortunatamente cerca questo senso della vita in altre vie e lo trova anche.
Il problema è ancora una volta il mondo adulto?
Invece di aiutarli a porsi gli interrogativi e a trovare le risposte giuste, noi adulti abbiamo cercato di riempire la loro vita con consumi e oggetti. Un altro problema della nostra cultura è dire che i problemi si risolvono attraverso cose che prendi dall’esterno, che sia la bibita, il liquore, un determinato cibo oppure oggetto, piuttosto che cercare la soluzione ai tuoi problemi dentro di te. La stessa psicologia, con la sua ondata di tipo cognitivo e comportamentistico, ha delegittimato completamente tutto il lavoro di introspezione, quello che Sant’Agostino, sulla scorta degli stoici, chiamava il dialogo dell’anima con se stessa.
Ci sono attenuanti, quindi, per l’indifferenza verso gli altri e la natura, la violenza, gli abusi di cui si sono resi protagonisti i giovani partecipanti al rave di Viterbo?
Una responsabilità loro c’è perché tutti gli esseri umani sono dotati di coscienza e sono in grado di compiere delle scelte. Io non voglio essere assolutamente un giustificazionista. Il problema è che questo abbandono del controllo cosciente di sé spesso viene facilitato. Pensiamo alle serie tv: spesso viene dato il messaggio che una persona che compie un crimine lo fa per degli impulsi dentro di sé che non può governare ma a cui può solo abbandonarsi. Educare la persona a esercitare un controllo e a sviluppare la forza di volontà, per tenere anche a freno gli impulsi, non viene più fatto, anzi spesso è ritenuto negativo. Quindi, c’è una falla educativa, ma la persona è sempre libera di scegliere in ogni situazione della vita. Certamente, nei rave le persone, sotto l’uso di sostanze e di musiche assordanti, perdono anche la sensibilità verso l’altro: il rapporto fusionale con l’altro significa non riconoscere l’altro nella sua unicità, diventa semplicemente una parte di un insieme e non è particolarmente rilevante. La sociopatia nasce quando io non sono più in grado di cogliere la sofferenza che il mio agire produce in un’altra persona. Quando non ho più l’empatia che mi permette di cogliere ciò che l’altro sta sperimentando divento indifferente.
Di fronte a un panorama sociale e educativo di questo tipo, si può più rimediare?
Nell’ultimo capitolo del mio ultimo libro “L’ individualismo inautentico. Come l’uomo può essere ridotto ad atomo di un organismo sociale”, evidenzio che per vincere queste derive sono sufficienti alcuni principi educativi e umani, come la capacità di sviluppare l’alterità, un rapporto autentico con l’altro, aiutare la persona nella ricerca di una trascendenza che dia senso alla propria vita. Infatti, ci sono dei giovani che seguendo queste vie semplici riescono a “disintossicarsi”. Dobbiamo rimettere al centro l’uomo, riscoprire le radici profonde dell’umano tra cui c’è la presa di consapevolezza che nessun essere umano può essere compiuto se non trova qualcosa che trascende la propria vita e le dà un senso. Può essere una fede religiosa ma anche un grande valore umanitario, un ideale di solidarietà. In questo modo riscopriamo che solo se sostengo l’altro nella sua crescita umana divento anch’io umano. Non può esistere un io senza un tu, senza un noi, occorre riscoprire la grande vocazione all’alterità profonda. Da una mia vecchia ricerca, emergeva chiaramente proprio che l’educazione all’alterità solidale è anche preventiva verso forme regressive a cui posso abbandonarmi.