La storia della sua vocazione alla vita consacrata, però, inizia in Benin, suo Paese d’origine. «Ho iniziato a 9 anni a frequentare il catechismo e ad andare alla Messa – racconta – e a 11 anni ho ricevuto il battesimo nella notte di Pasqua». Da quel momento è nato in lei quel desiderio di consacrarsi a Dio che non l’ha più lasciata: «ci ho ripensato molto, – dice – chiedendomi se davvero era quello che volevo, ma alla fine non ho mai cambiato idea». «Durante la settimana successiva al battesimo, ci veniva chiesto di venire alla Messa ogni giorno per completare il percorso della mistagogia – racconta ancora sorella Estelle – ma anche nelle settimane seguenti ho continuato ad andare alla Messa ogni giorno perché sentivo che non volevo distaccarmene». Durante uno di questi giorni feriali viene avvicinata da una sorella della Consolata della sua parrocchia, che le chiede il perché di una presenza tanto assidua e, già allora, la prima chiara risposta di Estelle: «risposi che anche a me sarebbe piaciuto diventare una suora come lei».Durante le scuole superiori, dunque, le prime esperienze per iniziare a capire qual era la vita delle Sorelle Apostole della Consolata e, dopo la maturità, «quando ormai non avevo più l’impegno della scuola, ho iniziato il postulato e il noviziato», racconta. «Dopo i primi voti, ho studiato infermieristica in Togo e mi sono laureata», continua. Da qui, iniziano i vari tipi di servizi di sorella Estelle come consacrata: l’alfabetizzazione nei villaggi, l’avviamento al lavoro manuale, il servizio nel dispensario medico, fino alle attività portate avanti in Italia. «Ho lavorato volentieri in tutti gli ambiti e la mia consapevolezza riguardo alla mia vocazione è cambiata nel corso degli anni – racconta sorella Estelle – all’inizio non sapevo pienamente a cosa venivo chiamata, ma quando mi hanno spiegato il carisma del mio ordine religioso, l’aspetto in cui mi sono ritrovata è stato il fatto che come Sorelle Apostole della Consolata siamo chiamate a portare consolazione e misericordia in ogni ambito della vita in cui può esserci un bisogno».«Non volevo curare qualcuno solo fisicamente o concentrarmi solo sull’aspetto educativo, ma prendermi cura in modo integrale delle persone», continua. L’ambito di cui però le piacerebbe occuparsi è quello della cura sul piano sanitario, educativo e sociale dei bambini in Benin: lì infatti, racconta sorella Estelle, «ci sono povertà affettive, a causa delle rivalità che a volte si creano nelle famiglie per via della poligamia e povertà materiali, perché con il guadagno del proprio lavoro non si riesce a soddisfare i bisogni di tutti i propri figli. Alcuni bambini nati con disabilità o con un parto non regolare e poi rimasti orfani, addirittura, vengono considerati portatori di disgrazie per la famiglia e vengono emarginati». In un ambito o nell’altro, come in ogni vocazione, però, ciò che per sorella Estelle va tenuto a mente è che «la chiamata principale è all’amore», ed è per questo che «a me il “per sempre” non ha fatto tanta paura», dice. «Dio ci ha amati e ci ha chiamati in quell’amore ad essere suoi, anche io così ho voluto essere un dono d’amore per gli altri», continua.«La vocazione, poi, non è una condizione statica, ma un cammino da fare con creatività, senza perdere di vista l’Amore che ti ha teso la mano per primo». «La società, adesso, ci vorrebbe portare ad apprezzare di più ciò che fiorisce all’inizio e poi passa; noi invece dobbiamo avere un fondamento di vita interiore, che ci aiuti a riconoscere ciò che vale veramente la pena. Quando siamo innestati in Cristo, possiamo abbandonarci in Lui e riuscire a camminare: questo è l’unico “per sempre” comune a tutte le vocazioni», conclude.