Toscana
Giornata per la vita, i figli come ricchezza
I figli sono una grande ricchezza per ogni Paese: dal loro numero e dall’amore e dalle attenzioni che ricevono dalla famiglia e dalle istituzioni emerge quanto un Paese creda nel futuro». Si apre così il messaggio del Consiglio episcopale permanente della Cei per la 30ª Giornata per la vita, che verrà celebrata domenica 3 febbraio 2008 a partire dal tema «Servire la vita». Reso noto il 2 ottobre scorso, memoria dei santi Angeli Custodi, il messaggio (testo integrale) abbraccia i vari aspetti e momenti della vita umana, dalla nascita fino alla vecchiaia e alla morte naturale.
«Chi non è aperto alla vita, non ha speranza. Gli anziani sono la memoria e le radici: dalla cura con cui viene loro fatta compagnia si misura quanto un Paese rispetti se stesso. (…) La civiltà di un popolo si misura dalla sua capacità di servire la vita. I primi a essere chiamati in causa sono i genitori. Lo sono al momento del concepimento dei loro figli: il dramma dell’aborto non sarà mai contenuto e sconfitto se non si promuove la responsabilità nella maternità e nella paternità. Responsabilità significa considerare i figli non come cose, da mettere al mondo per gratificare i desideri dei genitori; ed è importante che, crescendo, siano incoraggiati a spiccare il volo, a divenire autonomi, grati ai genitori proprio per essere stati educati alla libertà e alla responsabilità, capaci di prendere in mano la propria vita». Così scrivono i vescovi italiani nel loro messaggio. Più avanti parlano della rivendicazione del «diritto a un figlio a ogni costo, anche al prezzo di pesanti manipolazioni eticamente inaccettabili». «Un figlio non è un diritto, ma sempre e soltanto un dono. Come si può avere diritto a una persona?», chiedono, invitando a considerare «altre forme di maternità e paternità» quali l’adozione e l’affidamento.
«Legge 40», pressing sul ministro per cambiare le linee guida
La «spallata» del referendum fallì miseramente. Ma gli oppositori della Legge 40 sulla fecondazione medicalmente assistita non si sono fermati e hanno intrapreso un’altra strada, quella «giudiziaria», con decine di ricorsi ai giudici. E i risultati cominciano ad arrivare. È vero che in qualche caso i magistrati hanno dato loro torto, ma prima la sentenza di Firenze (giudice Isabella Mariani) che il 22 dicembre scorso ha concesso ad una singola coppia milanese di effettuare test sugli embrioni prima dell’impianto e soprattutto quella del Tar del Lazio del 24 gennaio, che ha dato ragione a numerose associazioni ricorrenti, sollevando anche una questione di legittimità costituzionale, hanno dato nuovo fiato ai contrari alla legge. Tanto che, nonostante la crisi di governo, è forte il pressing sul ministro Livia Turco perché emani nuove linee guida, molto più «permissive». Il segretario della associazione «Luca Coscioni», Marco Cappato, ha affidato al «Corriere della sera» una «lettera aperta» al ministro per esortarla a fare in fretta. Molto critica l’associazione «Scienza & vita», che parla di «strategia giudiziaria» a sostegno di coloro che «non hanno accettato la difesa del concepito come soggetto titolare di diritti e il bilanciamento delle tutele fra la madre e il concepito, principi di straordinaria civiltà». Ma sia «Scienza & vita» che il Movimento per la vita mettono in guardia soprattutto da una lettura «faziosa» della sentenza. Non è affatto vero che sia caduto il divieto di diagnosi preimpianto, come si legge sui giornali. «Lo scopo di tale falsità aggravata, sostiene Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, è «premere sul ministro della Sanità perché formuli linee guida più permissive di quanto la legge 40 permetta». In verità, il Tar si è limitato ad eliminare dalle linee guida del precedente ministro la parola «osservazionale», perché «ha ritenuto che l’indagine sulla salute dell’embrione in provetta fosse consentita dalla legge con strumenti diversi dal microscopio. Ma ha giustamente affermato che l’autorità amministrativa non può violare la legge». La parola «osservazionale», infatti, «non si trova nella legge e dunque una volta cancellatala sarà possibile usare anche mezzi diversi dal microscopio, sempre che il Consiglio di Stato, in appello, non riformi la decisione del Tar». Resta «intatto», però, il limite dell’articolo 13, secondo cui «le indagini genetiche sull’embrione possono essere effettuate solo per salvare la vita o la salute dell’embrione stesso»: non è il caso della diagnosi preimpianto, che per Casini «mira a distruggere l’embrione, non a salvarlo».
C.T.
di Andrea Bernardini
L’uso della pillola abortiva va «esteso in tutte le strutture pubbliche della regione». È quanto contenuto in una mozione approvata la scorsa settimana a larga maggioranza dal Consiglio regionale della Toscana (contrari i soli Udc, Forza Italia, An, Alleanza federalista). Fino ad oggi, in Toscana, l’aborto chimico è praticato all’ospedale «Lotti» a Pontedera, al «San Giuseppe» a Empoli, o al «Santa Maria delle Scotte» di Siena; ma non, ad esempio, a Firenze o Pisa, dove, evidentemente, gli operatori sanitari hanno liberamente scelto di non adottarla.
La pillola abortiva meglio conosciuta come Ru486 non è in commercio in Italia: solo di recente, infatti, la casa farmaceutica francese Exelgyn ha deciso di chiedere all’Agenzia italiana del farmaco l’autorizzazione al commercio di quel prodotto nel nostro Paese. Intanto, però, da oltre due anni si è fatto ricorso ad un decreto ministeriale del 1997 per importarlo in Toscana su richiesta ad personam dell’operatore sanitario. Il protocollo operativo elaborato dal Consiglio sanitario regionale prevede un ricovero ordinario di tre giorni: al primo giorno la donna assume la pillola abortiva, con la quale si vuole inibire lo sviluppo dell’embrione e favorire il suo distacco dalle pareti dell’utero; al terzo quelle donne che non hanno ancora abortito assumono il misoprostolo, che dovrebbe provocare le contrazioni necessarie all’eliminazione dell’embrione. Un farmaco, questo osserva il medico Renzo Puccetti indicato, per la verità, solo per la gastroprotezione. La stessa azienda che lo produce non ne contempla l’utilizzo per l’aborto. La procedura prevede, infine, una nuova visita la settimana successiva all’assunzione del misoprostolo (o prostaglandine), per verificare se l’aborto è avvenuto.
Se questo è il protocollo cui tutte le Asl dicono di essersi attenute, non tutto è filato liscio fino ad oggi. Ne è convinto Marco Carraresi (Udc) che in Consiglio regionale ha presentato ben sei interrogazioni sulla vicenda della pillola abortiva. «Intanto la maggior parte delle donne (in alcuni ospedali otto su dieci) che scelgono di abortire con il metodo farmacologico, chiedono di uscire dall’ospedale dopo aver assunto la pillola abortiva: firmando le dimissioni volontarie, di assumono la responsabilità di quella scelta. E rischiano di abortire al di fuori della struttura ospedaliera».
Agli esordi un discreto numero di donne ha fatto ricorso a questa metodica. I dati ufficiali dell’ultimo anno rivelano, al contrario, un calo del numero degli aborti chimici praticati nelle strutture toscane (150 nel 2007). Perché? Mancanza di spazi adeguati, come asseriscono alcuni addetti ai lavori, per accogliere le donne che scelgono questa metodica? Un incremento del numero delle strutture che ha seguito il cosiddetto modello Toscano? O, piuttosto, una questione di costi per il servizio sanitario regionale? Sì, perché per dirla con il professor Cosimo Facchini, che a Siena distribuisce pillole abortive «la procedura dell’aborto farmacologico ha costi molto più alti di un aborto chirurgico». Quanto più alti? «Fino a dieci volte di più».