La forza della memoria per allontanare le tentazioni «nostalgiche». Dopo il via libera alla riapertura delle strutture museali toscane, la Fondazione «Museo e Centro di documentazione della Deportazione e Resistenza» di Prato si prepara a celebrare la Giornata della memoria: «Abbiamo deciso insieme all’assessore alla cultura Simone Mangani di riaprire proprio mercoledì 27 gennaio, sia di mattina che di pomeriggio, con orario straordinario dalle 9.30 alle 12.30, e dalle 15 alle 18» conferma la direttrice Camilla Brunelli. «È un atto simbolico, un passo importante a cui tenevamo molto». Istituito nel 2002 come museo comunale, nel 2008 – anno in cui Brunelli assume la direzione –avviene il passaggio a fondazione di interesse regionale. Prima dello scoppio della pandemia, moltissimi ragazzi hanno visitato le stanze del Museo. Studenti non soltanto toscani, ma addirittura provenienti da città italiane e dall’estero, proprio perché in Italia sono poche le strutture dedicate al tema della deportazione nazifascista e agli orrori che ebbero luogo nei lager. Per facilitare una fruizione «a distanza» il sito web è stato arricchito con nuovi contenuti, con particolare attenzione all’offerta online dedicata agli insegnanti, in modo da rendere più agevoli le lezioni in Dad.Oltre all’attività museale – nonché all’organizzazione della Treno della memoria per Aushwitz (quest’anno bloccato a causa della pandemia) e del meeting degli studenti al Mandela Forum, che l’anno scorso ha coinvolto 7 mila studenti – fondamentale è stato l’impegno nella documentazione: «Le storie che abbiamo “recuperato” sono state tantissime e frutto di un approfondito lavoro di ricerca nazionale sulla deportazione politica, condotto in sinergia con l’Università di Torino e l’Associazione nazionale ex deportati. Abbiamo prodotto volumi con le biografie di 24 mila deportati politici italiani, documenti che si trovano nella nostra biblioteca specializzata; si contano più di 4 mila volumi anche in lingua straniera».Per prima cosa, comunque, bisogna operare una distinzione tra deportazione «razziale», quella che ha coinvolto uomini, donne e bambini di origine ebraica, e deportazione politica, che invece ha coinvolto oppositori politici e loro familiari; benché la destinazione fosse sempre la stessa, il lager.«Mi vengono in mente le tristi sorti di Massimo D’Angeli, bimbo di Montecatini vittima della Shoah italiana e morto ad Auschwitz ad appena 17 mesi, e di Diego Biagini, padre del presidente della sezione pratese dell’Aned, Giancarlo». Biagini, esempio di deportazione politica in quanto dichiaratamente antifascista, aveva partecipato allo sciopero generale dei primi di marzo del 1944, a seguito del quale i nazifascisti reagirono con molti arresti in tutta Italia. Biagini, quindi, venne catturato la sera del 7 marzo e spedito al campo di Mauthausen, nel quale trovò la morte dopo un mese. La moglie Natalina e i figli – Giancarlo e le tre sorelle maggiori – seppero poco o nulla della sorte di Diego, solo “che era partito un treno pieno di uomini”; finché pochi mesi dopo i nazisti inviarono alla famiglia una lettera datata 13 giugno 1944, nella quale veniva dichiarato che Diego Biagini era morto sul suo posto di lavoro l’8 aprile 1944 a causa di una incursione nemica. «Tuttavia è da escludere che la morte fu per un’incursione nemica, più probabilmente sono state le terribili condizioni di violenza quotidiana del lager».Le deportazioni politiche, comunque, non riguardarono solo «i colpevoli» ma anche padri e figli di questi: uno è Angelo Morandi, padre di Luigi ossia il telegrafista di Radio CORA ucciso quando fu scoperta la radio in piazza D’Azeglio. Nemmeno i ragazzini vennero risparmiati: «Marcello Martini, pratese, venne arrestato e deportato a Mauthausen nel ‘44 quando aveva solo 14 anni per ritorsione nei confronti del padre, attivo nella resistenza. Anche Marcello aveva fatto la sua parte, come staffetta partigiana; dopo la deportazione fu costretto a cambiare tre lager e partecipò alla “marcia della morte” – quando l’Armata Rossa si stava avvicinando da oriente, i nazisti evacuarono i campi e fecero camminare per chilometri i prigionieri, almeno chi poteva farlo, gli altri furono uccisi o lasciati a morire – fino ad arrivare miracolosamente (lui, poco più che bambino) a Mauthausen. Marcello sopravvisse anche alle atrocità del lager “austriaco” – l’Austria era stata annessa dalla Germania nel 1938 – e fu liberato il 5 maggio del ‘45».Prima di venire deportati nei campi di concentramento, Diego e Marcello furono rinchiusi nello Sammellager (campo di raccolta) allestito nelle Scuole Leopoldine in piazza Santa Maria Novella, dove ora si trova il Museo del Novecento. «È un luogo spesso “dimenticato” nella triste mappa degli orrori nazifascisti in Toscana» conclude la direttrice. «Lì vennero tenuti gli antifascisti, i lavoratori che avevano partecipato allo sciopero nel marzo del ‘44, nonché persone che non c’entravano nulla ma arrestate solo per rabbia, dopo rastrellamenti a Firenze, nel Pratese e nell’Empolese. I tedeschi, infatti, requisivano luoghi vicini alle stazioni di ferroviarie proprio per farne Sammellager, centri di raccolta per imprigionare le persone che poi sarebbero state inviate nei campi». Dalla stazione fiorentina sarebbero partite 330 persone, perlopiù alla volta di Mauthausen; solo poche decine sarebbero tornate. Sulla facciata c’è oggi una targa dell’Aned che ricorda questo orrore.