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Giornalisti nel pallone, una pedata allo spot

di Mauro BanchiniIl potere nel calcio ce l’ha chi ha i soldi; i soldi li danno le tv; quindi anche nel calcio il potere ce l’ha chi possiede le tv». Martedì sera un Moggi in lacrime si è raccontato a Floris con una spiegazione impeccabile.

E subito dopo una splendida ministra (che ci posso fare se Giovanna Melandri è davvero una bella donna?) ha puntato sui diritti televisivi, sulla loro «rinegoziazione collettiva», per lanciare uno dei primi segnali governativi per il dopo calciopoli.

Sono uno dei pochi, in Italia, a non capirci un tubo nel calcio parlato (una volta, in un albergo a Torino che ospitava la Juve in ritiro, mi capitò di salire in ascensore con un tizio a cui dissi di essere toscano. Mi replicò, divertito, che tornando a Firenze non avrei dovuto dire di essere stato con lui. Candido, gli chiesi chi diavolo fosse. Mi rispose di chiamarsi … Luciano Moggi).

Non capisco nulla del calcio parlato, ma godo a vedere il calcio giocato specie quando i 22 ci sanno fare. Ho però capito chi è il nemico del calcio: la pubblicità, lo tsunami di soldi che sommerge tutto, costringe lo sport a trasformarsi in azienda, zeppa le cronache di pannoloni&pannolini, quota in borsa ciò che non è quotabile, rende più peso il già incredibile conto in banca di Alex e del suo uccellino, offende la semplicità della povera gente, incarognisce il cervello di quegli stupidoni del tifo violento, rappresenta uno dei più forti oppiacei per sudditi pilotati a occuparsi di sciocchezze invece che di cose serie, toglie ogni tipo di divertimento, cancella le regole, ammazza la lealtà.

Insieme alla pubblicità, esaltazione di un mercato sempre meno imprenditoriale e più consumistico, l’altro protagonista è il sistema mediatico. Ecco dunque una proposta da due centesimi, per iniziare la rivolta del dopo calciopoli.

Oggi, quando i giornalisti intervistano qualche personaggio del calcio e dello sport in genere, devono farlo sullo sfondo dei tanti loghi pubblicitari degli sponsor. Pure i giornalisti sportivi diventano dunque pedine nel businnes del mercato, obbligati a scordare l’abc della deontologia: il fatto, cioè, che la responsabilità verso il cittadino dovrebbe prevalere sempre su ogni altro tipo di responsabilità.

E se (miracolo?) capitasse una rivolta di dignità? Se i giornalisti, uniti, rifiutassero di fare interviste sullo sfondo dei marchi commerciali? Se pretendessero di intervistare calciatori, allenatori, dirigenti in campo libero, senza overdose di loghi? Verrebbero certo rifiutate le interviste e, dunque, accadrebbe qualcosa di assolutamente non grave, perfino di utile per la salute collettiva e l’intelligenza pubblica. Per poi ripartire con un calcio, finalmente, riportato nei limiti di quello che è e deve restare: un gioco.

Il gioco più bello del mondo.

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