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Gerusalemme, qui si intrecciano i fili della storia sacra
La liturgia del triduo pasquale ci parla dei luoghi della Passione e della resurrezione. Giorni che si intrecciano con le festività ebraiche e con il Ramadan
Gerusalemme: moltitudini di persone si fermano davanti al Muro occidentale, conosciuto impropriamente come il Muro del pianto, luogo santo per l’ebraismo. Non solo appartenenti alla fede ebraica giungono qui per rinnovare la consuetudine di inserire fra le fessure delle antiche pietre, piccoli fogli che contengono preghiere, o richieste personali rivolte a Dio.
Il Muro occidentale è l’unica porzione visibile del tempio erodiano andato distrutto nel 70 d.C. In un famoso film recente, fra tante inesattezze ce n’è una che spicca in maniera particolare: il Muro Occidentale fino a qualche decennio fa non aveva uno spazio che ne rivelasse già a distanza tutto lo splendore, e soprattutto potesse accogliere le folle che desiderano – sarà meglio dire desideravano! – avvicinarsi alla porzione che conteneva il soprastante Monte del Tempio, come si legge sui cartelli stradali, e anche salire all’Al-¿aram Al-Sharif, il «nobile santuario», ossia la spianata che contiene la moschea di Al-Aqsa e della Cupola della Roccia.
Da quando lo stato d’Israele, nato ufficialmente nel 1948, ha ottenuto il controllo di Gerusalemme Est durante la Guerra dei Sei Giorni (1967) – la prima volta dalle Crociate in poi che l’Islam ha perso il controllo dell’area – il sito è diventato un punto di particolare attenzione nel conflitto arabo-israeliano, poiché i musulmani hanno sollevato preoccupazioni sul destino dei luoghi santi islamici che vi si trovano attualmente. Fu appunto dopo conflitto che lo Stato di Israele, contro il parere dell’Unesco, decise di abbattere tutto il quartiere che era collocato addosso all’enorme struttura.
Anche se l’uso di porre queste piccole preghiere dentro le fessure, di cui si sono serviti Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, e anche papa Francesco nelle loro rispettive visite, si sostiene sia nato solo nel secolo diciannovesimo, due volte l’anno sotto la supervisione di un rabbino gli addetti sgombrano le fessure fra pietra e pietra con l’aiuto di bastoni in legno. Si evita infatti accuratamente ogni tipo di metallo per non «ferire» quelle pietre e intaccare la sacralità di quel luogo. Quest’operazione viene ripetuta alla vigilia nella festa del Capodanno ebraico (Rosh Hashana), e nei giorni che precedono la solennità di Pasqua.
Non molti sanno che i biglietti non vengono gettati dopo la rimozione: ogni testo scritto nella spiritualità dell’ebraismo viene trattato con enorme rispetto anche perché ogni lettera dell’alfabeto ha un riferimento simbolico e anche un significato mistico. Essi vengono consegnati alla terra, ossia sepolti nel cimitero ebraico del Monte degli ulivi.
Ora, la solennità di Pesach cade tra il 14 e il 15 del mese di Nisan, il primo mese della primavera conosciuto anche come Abib (da pronunciare Aviv), coincidenza dell’l’inizio della mietitura e della primavera. Nel 2024 inizia la sera del 22 aprile e termina la sera del 29 aprile. Quest’anno la Pasqua dei cristiani d’occidente – ringrazio per la notizia don Francesco Carensi – si interseca anche con la festa di Purim, che ricorre dal 23 al 24 marzo, corrispondenti al 14 e 15 del mese di adar, sesto mese del calendario civile e il dodicesimo del calendario religioso. Secondo il libro di Ester, la festa ricorda il giorno in cui gli Ebrei di Persia, sotto il regno di Serse (519-465 s.C), si salvarono dallo sterminio che il ministro del re Aman aveva decretato, fissando la data per mezzo delle «sorti», ovvero i «purim». L’intervento di Mardocheo, che coinvolge la stessa Ester, riuscì a liberarli. La festa ebbe la sua origine nel corso del II sec. a.C. ma il motivo storico della salvezza sarebbe stato inserito su preesistenti celebrazioni persiane o babilonesi del Capodanno.
Tornando invece alla Pasqua, anticamente, i cristiani dell’Asia Minore osservavano il giorno della crocifissione nello stesso giorno in cui gli ebrei celebravano l’offerta pasquale, cioè il quattordicesimo giorno della prima luna piena di primavera, il 14 Nisan. La Resurrezione, quindi, era celebrata due giorni dopo, il 16 Nisan, indipendentemente dal giorno della settimana. In Occidente, invece, la Resurrezione di Gesù veniva celebrata il primo giorno della settimana, la domenica, il giorno in cui Gesù era risorto dai morti. Di conseguenza, la Pasqua veniva sempre celebrata la prima domenica dopo il quattordicesimo giorno del mese di Nisan. Sempre più spesso, le Chiese optarono per la celebrazione domenicale, e i sostenitori del «quattordicesimo giorno» («quartodecimani») rimasero una minoranza.
Il Concilio di Nicea del 325, ponendo fine a una controversia decretò che la Pasqua dovesse essere osservata la prima domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera: quest’anno il 31 marzo. La Pasqua può cadere in qualsiasi domenica tra il 22 marzo e il 25 aprile. La Pasqua ortodossa, invece, cadrà quest’anno la domenica 5 maggio, secondo il calendario giuliano utilizzato da gran parte dell’Ortodossia orientale.
Ma quest’anno non è una Pasqua come tutte le altre: di fatto, questa Pasqua cade, almeno per i cristiani occidentali (i Latini), durante Ramadan (10 marzo – 8 aprile). L’incastro di tutte le feste si fonde però con la Gerusalemme che sta attraversando questi mesi in una guerra che sembra senza fine.
Non è soltanto la città che, come dice il Vangelo di Matteo, mette a morte i profeti: «io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città» (Mt 23,34). Oppure come scrive il Vangelo di Luca: «la sapienza di Dio ha detto: “Manderò loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno” (Lc 11,49). E, ancora più fortemente «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Lc 13,34).
La verità di queste parole è il fatto indiscutibile che la Città santa è il teatro di tutti gli avvenimenti che dalla Cena avanti la passione, al Getsemani, dov’è stato arrestato, fino al luogo in cui Gesù è stato giudicato e condannato dal sommo sacerdote e dal sinedrio, e quindi condotto davanti a Ponzio Pilato e inviato al luogo della crocifissione. Gerusalemme è soprattutto il luogo della risurrezione che adempie tutte le parole pronunciate dal Signore durante la sua missione pubblica.
Ora, tutte le vicende, tutti fili della storia sembrano intrecciarsi in quella città e in quella terra, tanto da farci dubitare di quella fede del padre di tutti i monoteismi, di Abram, che «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli» (Rm 4,8). La fede di Abramo conduce alla speranza di districare tutti gli odî, tutte le violenze, tutte le menzogne e le violenze della guerra.
Per i credenti in Cristo c’è però anche un’altra strada. Così scrive il Vangelo secondo Giovanni: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede abbia in lui la vita eterna» (Gv 3,14-15); «quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato» (Gv 8,28); «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
La croce di Cristo, che va incontro alla morte e la vince, è la sicura certezza che tutta la l’umanità, insieme all’intera creazione, sarà salvata dagli orrori creati dagli egoismi umani: «ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere» (Ap 3,8).
Stefano Tarocchi
Preside della Facoltà teologica dell’Italia Centrale